MARIO BONI

Boni marca l'ex-gemello Niccolai

 

nato a: Codogno

il: 30/06/1963

altezza: 200

ruolo: ala

numero di maglia: 16

Stagioni alla Virtus: 2004/05

Statistiche individuali del sito di Legabasket

biografia su wikipedia

 

CONTROCORRENTE

di Roberto Cornacchia - V Magazine - aprile/giugno 2009

 

Una carriera continuamente in salita quella di Mario Boni, sempre a combattere contro i pregiudizi che parevano tenere unicamente conto del suo carattere particolare e non delle sue indubbie qualità, tecniche e di "attributi", sul rettangolo di gioco. Un carattere che lo ha spesso fatto diventare il bersaglio preferito delle tifoserie avversarie ma anche un idolo incontrastato dei propri tifosi, i quali ne serbano un vivo ricordo anche a distanza di anni. A forza di cambiare squadre, forse adesso sono più i secondi dei primi. Questo continuo andare contro la corrente ha contribuito a forgiarne ancor più la tempra, a renderlo uno che quando c’è da fare canestro lo fa, quando c’è da combattere combatte, quando c’è da metterci la faccia ce la mette. Sempre, anche senza un pallone in mano.

Il tuo inizio è stato un po’ diverso da quello di molti tuoi colleghi di serie A: nessun settore giovanile prestigioso, nessuna squadra di serie superiore a farti la corte.

Iniziai a fare sport attorno ai 10 anni e come tutti comincia col calcio di cui ero, e sono tutt'ora, un grande appassionato e un interista sfegatato. Stavo in mezzo al campo a fare il mediano, avevo piedi poco buoni ma facevo una gran legna. Poi mia madre volle che giocassi a pallacanestro, anche perché non le piacevano certe compagnie che frequentavo in ambiente calcistico. Non fu per la statura, all'epoca non eccezionale visto che sono cresciuto molto lentamente nel tempo. Inizialmente mi limitavo a giocare in un campetto all'aperto, all'oratorio di Codogno. C'era gente più grande, che conosceva il gioco meglio di me e che praticava anche un certo "nonnismo" nei miei confronti: l'inizio non fu dei migliori.

Allora dobbiamo tutti ringraziare tua madre se ti abbiamo potuto ammirare per tanto tempo.

Sì, lei insisteva anche perché non voleva che tornassi a casa tutto sporco e perché d'inverno si giocava al chiuso. Poi vedendo che molte cose mi riuscivano abbastanza bene al primo approccio e grazie anche ai diversi allenatori che mi fecero conoscere cose nuove, cominciai ad apprezzare il basket. Ma era tutto molto artigianale, figurati, immersi nella nebbia di Codogno, in piena Val Padana...

Come fu il tuo approdo nel basket maggiore?

La combattività era il mio marchio di fabbrica: fin da piccolo giocavo ogni partita con la bava alla bocca. Cominciai a farmi notare negli juniores regionali dove segnavo delle caterve di punti ma venivo snobbato dalle realtà più importanti della zona come Milano e Cantù per via del mio carattere non facile. Poi c'erano i soliti equivoci tecnici di quei tempi: si diceva che fossi troppo alto per giocare da esterno e troppo basso per giocare sotto canestro. Nonostante fin da subito la mettessi dentro in tutti i modi, sia da fuori che da sotto (all'epoca non c'era il tiro da 3 punti), che fossi un notevole rimbalzista e un gran combattente, nessuno sembrava disposto a scommettere su di me. A 18 anni andai a Piacenza in C2 dove, tanto per cambiare, nessuno pensava avessi concrete possibilità di stare in campo. Nel vedermi circondato da tutta questa diffidenza sviluppai una crescente voglia di dimostrare che si sbagliavano tutti sul mio conto: fu la prima di tante sfide che nel prosieguo della mia vita fuori e dentro dal campo si sarebbero presentate e io la raccolsi, come tutte le seguenti.

All'epoca non avevi il sogno di diventare un giocatore importante?

No, mi pareva un'eventualità veramente remota: davvero non pensavo di poter giocare prima o poi in serie A. Alla fine di quel campionato di C2, Maurizio Fiorani, il mio allenatore a Codogno, mi propose un provino per Vigevano perché conosceva Alfonso Zanellati, il vice allenatore. Eravamo in una ventina a quel provino e la maggior parte degli altri convenuti erano meglio di me ma grazie alle buone parole spese da Fiorani in mio favore, e anche perché ero quello che costava meno di tutti, venni scelto. Però non me lo dissero subito: il provino si tenne a maggio e la conferma del mio passaggio la ebbi solo pochissimi giorni prima della chiusura del mercato che era il 15 di giugno. Furono 45 giorni di notevole stress psico-fisico perché per me approdare in una società di serie A era davvero una cosa che agognavo. A Piacenza furono pagati 20 milioni quando per prendermi in prestito dal Codogno avevano pagato un milione e 10 palloni, giusto per dare un'idea di quanto fossi considerato all'epoca.

La tua prima serie A, in A2 con l'American Eagle Vigevano.

Fu un campionato difficile per me. Giocavo pochissimo, mi confrontavo per la prima volta con gli americani e non mi sentivo assolutamente pronto per quel livello. Conseguentemente, non credendoci più di tanto nemmeno io, non riuscivo nemmeno a giocare con quella grinta che mi contraddistingueva. Una delle ultimissime partite di campionato la disputammo contro la Mister Day Siena in cui, giocando contro il grande Claudio Malagoli, segnai 19 punti: questo mi diede grande fiducia. Quell'anno Vigevano retrocesse in serie B e questa forse fu la cosa migliore che potesse capitarmi. In serie B sentivo di meritare di giocare e giocando ottenni la consapevolezza della mia forza: fu così che la mia carriera prese il volo. Tornò fuori il mio carattere indomito, la mia voglia di vincere e, particolare non secondario, venni finalmente spostato nel ruolo di ala dove tuttavia riuscii a far valere le mie doti di uomo d'area, tant'è che quella stagione vinsi sia la classifica di miglior marcatore che quella di miglior rimbalzista. La mia esperienza personale mi fa dire che è meglio giocare da protagonista in serie B che fare della panchina in serie A. Così come conta saper scegliere la squadra adatta in base a quello che si vuole: in una grande squadra bisogna arrivarci più maturi mentre in una realtà di provincia c'è tempo e modo di crescere senza avere il fucile puntato contro.

Ebbe inizio il tuo lungo legame con Montecatini.

10 anni bellissimi, il cui unico ricordo spiacevole fu la squalifica per doping. Lì ho costruito la mia carriera di giocatore e devo ringraziare personaggi come il coach Massimo Masini, che mi coccolava, Gino Natali e il presidente Vito Panati, che mi hanno accudito come un figlio e che hanno saputo accettare le parti più scomode del mio carattere. Devo ammettere che ero davvero difficile da gestire: bravi loro che mi hanno saputo prendere nella dovuta maniera e mi hanno fatto sentire come a casa.

Quando esplose Niccolai e poco dopo divenne l'uomo del mercato, non ti venne da pensare: "se lui è l'uomo più voluto da tutti, allora anch'io posso ambire a palcoscenici più importanti"?

Non è una cosa della quale abbia sofferto, anche perché io mi sono sempre considerato il più forte perché questo fa parte del mio modo di affrontare la competizione. Quello che per me è sempre stato importante era scendere in campo, dare il massimo e dimostrare chi fosse il più forte in quella singola partita. Mai provata nessuna invidia nei suoi confronti o di altri, anzi: a me il fatto che lui, che consideravo un po' come un fratello minore, così giovane e con tutta la carriera davanti andasse in una squadra ambiziosa come Roma faceva solo piacere. Io ormai non ero nemmeno più tanto giovane e soprattutto mi portavo dietro quella nomea di giocatore problematico e che mal si adatta alle regole di squadra. Poi le mie soddisfazioni me le sono tolte lo stesso anche senza scendere a compromessi con quello che mi aspettavo da determinate situazioni: ho ottenuto 7 promozioni e vinto 2 coppe, di cui una internazionale, dimostrando di poter giocare anche in squadre di alto livello e di capire quando dovevo mettermi al servizio della squadra. Quando in squadre come Montecatini prendevo tante iniziative era perché era quello che mi veniva chiesto e, tutto sommato, penso di averlo fatto anche abbastanza bene.

Quindi nessun rimpianto per aver speso la maggior parte della tua carriera in realtà piccole e poco ambiziose dove hai vinto meno di quanto forse avresti potuto vincere?

No, nessun rimpianto. Le scelte di carriera che ho fatto le ho sempre sentite molto mie, non erano dei ripieghi. Il mio ego era talmente strabordante che io "dovevo" essere la stella della squadra e il principale terminale offensivo: mi vedevo così e non avrei mai accettato compromessi in tal senso. Ricordo ancora una delle primissime partite giocate con la maglia di Montecatini, in un torneo estivo. Nella riunione pre-partita l'allenatore comunicò lo starting-five e io non ne facevo parte. Accecato dalla rabbia, mi tolsi la maglia, la scaraventai a terra e urlai: "io me ne vado via". E così feci. Questo per far capire come vivevo il mio ruolo: per me era inaccettabile essere considerato meno meritevole di altri e per me il posto in quintetto era sacro. Poi quando ero già fuori dagli spogliatoi venne Gino Natali a farmi ragionare e rientrai. Fu grazie anche ad episodi come questo che il mio rapporto con Natali si rafforzò. Quando uscii da Montecatini, c'erano diverse squadre europee che mi volevano e io scelsi Roma anche perché c'era lui.

Verso la fine del tuo periodo a Montecatini, ci fu il caso del nandrolone. A distanza di anni, cosa pensi di tutto quello che successe?

Fu un peccato veniale, non ero nemmeno a conoscenza di quello che stavo prendendo e che stessi violando qualche norma. Il prezzo che mi vollero far pagare fu assolutamente sproporzionato rispetto alla colpa: dare due anni di squalifica ad un giocatore di 31 anni significa volerlo uccidere. Qualche anno dopo al calciatore Davids per una faccenda molto simile diedero solo tre mesi. Con me invece vollero colpire duro e devo ringraziare il presidente Petrucci che mi ridusse la squalifica e così dopo un anno potei tornare a Montecatini.

Ritieni che la tua fama di personaggio scomodo abbia influito in qualche modo sull'intera vicenda?

Non credo che sia dipeso questo. Ero un giocatore di una piccola società, ero appena diventato il primo italiano a vincere il titolo di capocannoniere dopo 30 anni (prima di lui l'ultimo era stato il virtussino Gianfranco Lombardi - nda) e quindi ero un personaggio piuttosto in vista. Di certo era più facile colpire me che giocatori che indossavano la maglia di squadre più importanti. Se avessi giocato in squadre con traguardi ambiziosi non credo che sarebbe andata a finire così.

Un anno che non hai passato con le mani in mano.

Non è nel mio stile rassegnarmi. Dapprima presi parte alle summer league di San Diego e Memphis, dopodiché decisi di provare l'esperienza del basket minore americano, giocando dapprima per i Memphis Fire nella USBL e poi negli Yakima Sun City nella CBA. Fu un'esperienza davvero interessante, anche divertente e formativa sotto certi aspetti, ma dal punto di vista prettamente cestistico non imparai proprio nulla. Il gioco di squadra non si sapeva nemmeno cosa fosse: ognuno pensava solo a mettersi in mostra nella speranza di essere notato da qualche scout della Nba. Fu comunque educativo toccare con mano la durezza della vita di chi vive ai margini del grande basket, cosa significa avere il sogno di giocare in Nba e lottare con tutte le proprie forze perché l'unica alternativa è quella di andare a fare domanda per un posto da operaio.

Come fu confrontarsi con atleti che avevano una "fame" di affermazione non inferiore alla tua?

Anche solo a livello cromatico fu divertente: già nei try-out su 23 giocatori io ero l'unico bianco. Ma pur essendoci fra loro un razzismo al contrario, ero comunque europeo e per giunta italiano e quindi mi presero in simpatia fin da subito. C'erano dei personaggi buffi, specie i ragazzi del sud parlavano con un accento incomprensibile e, nonostante chiedessi di parlare più lentamente, non capivo quasi mai quello che volessero dirmi. Umanamente era toccante vedere quanto la realizzazione di questo sogno fosse importante per loro. Negli Stati Uniti non è come da noi dove ci sono tanti livelli e se non giochi in serie A puoi provare in serie B o in serie C e via dicendo: o vai in Nba o al massimo ti rimane la carta dell'Europa. Io invece ero una specie di emigrato a tempo determinato: sapevo che sarei tornato in Europa. Di sicuro il sistema italiano è più protettivo in questo senso.

Terminata la squalifica, tornasti a Montecatini dove senza di te erano retrocessi. Un campionato di A2 e poi l'esperienza in Grecia.

Erano i primi anni dopo la sentenza Bosman e si erano aperte nuove prospettive per i giocatori europei. Mi cercò l'Aris di Salonicco e io accettai. Nonostante alcuni problemi in squadra tra i due play che non si parlavano, con Liadelis in guardia, Ortiz e Shackleford sotto canestro formavano una squadra rognosa come poche. Coach Subotic mi disse subito cosa si aspettava da me: punti ed energia ma chiarì che non ero io il principale terminale offensivo. Fu una stagione grandiosa: vincemmo la Coppa di Grecia e la Coppa Korac dove nella finale in Turchia contro il Tofas Bursa di Rashard Griffith segnai 26 punti, rispondendo alle provocazioni del pubblico locale e per questo uscendo scortato dall'esercito. Un quotidiano greco uscì col titolo "Il Dio dell'Aris" con sotto la mia foto con la coppa in mano. Poi l'anno successivo ci furono problemi, la squadra non aveva più un soldo e a metà stagione dovetti andarmene. In un sondaggio sono stato votato il giocatore più amato dopo il grande Nikos Galis: sono ancora in contatto con quel branco di scalmanati.

Natali ti vuole a Roma e quindi finalmente puoi giocare in una società che non pensava solo a salvarsi.

Ero abbastanza gasato dall'opportunità perché ritrovavo Natali che mi aveva fortemente voluto e perché volevo dare seguito alle belle stagioni in Grecia. Per andare a Roma rifiutai alcune proposte interessanti, fra queste quella di Maljkovic che mi avrebbe voluto al Paris Saint Germain. Purtroppo quella Roma non era la mia squadra perché non praticava il tipo di gioco che mi si confaceva. E comunque c'erano già dei problemi, difatti mi presero proprio per vedere di sistemare certe cose. Raggiungemmo i play-off, ci qualificammo per la Coppa, benché la stagione tutto sommato non sia stata negativa non sono riuscito ad esprimermi al mio meglio.

Poi ci furono nuovi sospetti legati al doping, dai quali uscisti completamente scagionato, ma la cosa ti schifò al punto che dicesti non voler più giocare in Italia. E infatti andasti in Spagna.

Giocai due anni al Caja Cantabria. Per me il campionato spagnolo fu una scoperta: era già considerato importante ma ammetto che non sapevo esattamente dove ero andato a giocare. Già allora mostrava le caratteristiche che lo avrebbero poi reso il più bello d’Europa: un'efficace organizzazione, i palazzetti pieni, tanti bambini e famiglie sugli spalti, una stampa molto partecipe, le partite trasmesse in televisione a differenza di noi che, all’epoca, avevamo solo mezza partita al sabato pomeriggio sulla Rai. E tutta questa attenzione poi ha portato ai risultati che tutti conosciamo: i successi di club, le vittorie con la Nazionale, la crescita di tanti campioni, molti dei quali ora giocano nella Nba. Per quanto dal punto di vista umano mi trovai benissimo ed ebbi a che fare con persone piacevolissime, dal punto di vista cestistico fu proprio un disastro. Fondamentalmente chi mi aveva scelto non aveva proprio capito che razza di giocatore fossi: mi avevano preso pensando che fossi uno specialista difensivo, pensa te. Mi sono trovato in situazioni a volte davvero improponibili: una volta in una box&one ho dovuto marcare a uomo Elmer Bennet. Un’altra volta mi avevano messo su Sasha Djordjevic. Lui, conoscendomi per aver giocato contro nel campionato italiano, quando mi vide sulle sue tracce mi disse: "Ma cosa fai qui? Sei sicuro che devi marcare me?" In effetti era una situazione ridicola. E a giocare in maniera così sbagliata e fuori dalle mie corde, mi giravano.

Un altro cambio di casacca a campionato in corso: tornasti in Italia per giocare a Roseto.

Fu una rinascita, dopo il periodo spagnolo. Innanzitutto Roseto era una bella squadra, prima in classifica in A2, e soprattutto con un pubblico caldo come piace a me. Mi chiamò Martinelli e mi disse che, visto che si era appena infortunato Paolo Moretti, la loro bocca da fuoco principale, avevano bisogno di uno al quale dare le chiavi dell’attacco: proprio quello che piace a me. Furono delle gran belle stagioni: promozione in A1 il primo anno, e l’anno successivo qualificazione per la Coppa Italia e poi i play-off in entrambe le stagioni di A1. E nonostante la non più verde età continuavo a stare tranquillamente oltre i venti punti di media.

Sembrava dovessi instaurare un altro lungo matrimonio come quello con Montecatini.

Infatti anch’io pensavo che sarei rimasto, l'ambiente era ideale per me: il giusto contesto tecnico, un pubblico appassionato, una città gradevole. Quando la società passò da Martinelli ad Amadio sembrava che non dovesse cambiare nulla. Mi chiamò addirittura il sindaco chiedendomi di restare perché avrebbe avuto piacere che diventassi la bandiera della squadra. Bene, non cercavo di meglio. Amadio mi contattò dicendomi che la squadra sarebbe sorta attorno a me, che ero il capitano e che nel giro di 15 giorni avremmo stilato il nuovo contratto. Poi mi disse che avrebbe preso anche Valerio Bianchini, che si sarebbe dovuto occupare dei rapporti con i media, e mi chiese un parere: gli dissi che professionalmente lo stimavo ma che come persona non eravamo andati molto d’accordo nel nostro periodo insieme a Roma. Sto ancora aspettando che Amadio mi chiami…

E allora ti spostasti solo di qualche chilometro, andando a Teramo.

Mi cercò Antonetti, che aveva una grandissima passione e dei progetti ambiziosi. E il posto mi piaceva perché c’erano quelle caratteristiche che avevo trovato nelle altre realtà italiane nelle quali avevo dato il meglio di me. Senza contare che ormai mi trovavo a meraviglia in Abruzzo dove la passione per il basket stava esplodendo ed era un piccolo paradiso per il nostro sport. Così come feci con Roseto qualche anno prima, anche con Teramo ottenni la promozione in A1 al primo tentativo: una delle cose delle quali vado più fiero è proprio quella di aver portato il basket abruzzese nella serie maggiore. Tutto andava a meraviglia: alla soglia dei 40 anni venni giudicato dalla GIBA e da un sondaggio del Corriere dello Sport come giocatore dell’anno. Però capii che dopo queste due stagioni non rientravo più nei piani societari e allora preferii “lasciare il profumo invece che la puzza” scegliendo altre destinazioni.

Quindi fu la volta di Jesi.

Anche qui pensavo di aver trovato la mia solita quadratura del cerchio: una realtà piccola ma appassionata, una città a misura d’uomo e in campo un ruolo importante. Ma le cose andarono storte fin dall’inizio. La squadra era stata costruita da coach Gresta, in seguito sostituito dallo stesso Subotic che mi aveva avuto all'Aris, con diversi equivoci e troppi giocatori che si pestavano i piedi. Rossini e Rombaldoni erano giocatori che avevano bisogno di tenere la palla in mano, ma soprattutto non legai proprio con Titus Ivory con il quale spesso gli allenamenti diventavano delle gare di rugby. Non riuscivo a dare l’apporto che sapevo che avrei potuto dare e non mancai di renderlo noto nello spogliatoio, come è mia consuetudine. Poi visto che le cose non cambiavano lo dissi anche un’intervista e la conseguenza fu che venni messo fuori squadra.

Col senno di poi, specie vedendola con gli occhi dei tifosi virtussini, fu meglio così.

Anche per me. Ci tenevo proprio a venire in Virtus. Poi quando parlai con Sabatini e capii che c’erano le premesse per fare bene e la volontà di tornare presto ad avere una squadra che rinverdisse la gloriosa storia societaria non vedevo l’ora di cominciare. Massimo Faraoni e Giordano Consolini furono chiarissimi sul tipo di apporto che si aspettavano da me: c’erano delle gerarchie da rispettare, un po’ come avevo già sperimentato in precedenza all’Aris, e partendo dalla panchina dovevo portare punti, tiro da fuori contro la zona, qualche minuto di difesa dura e soprattutto quel tanto di imprevedibilità. Ero contento: facevo quel che mi veniva chiesto e la squadra funzionava.

Forse non tutti sanno che fu proprio Ettore Messina a consigliarti a Consolini, lo stesso che anni prima quando era al timone della Nazionale preferì a te giocatori come Bullara e Ruggeri.

Sono ancora grato ad Ettore per aver speso delle belle parole nei miei confronti ed aver detto a Consolini che se voleva conquistare la promozione ero io il giocatore da prendere. E non dimentico certo la telefonata che mi fece dopo la vittoria finale contro Montegranaro per congratularsi per la promozione e per ringraziarmi di aver riportato la Virtus nella serie che le spettava. Mi sarebbe piaciuto restare ancora, anzi per un po' ci ho anche sperato. Ma poi Markovski non mi ritenne adatto per il suo progetto di squadra.

Seguì l’ennesimo ritorno a Montecatini, assieme all’altro figliol prodigo Niccolai.

Era una specie di grande rimpatriata: conoscevo perfettamente l’ambiente e in più c’era la gioia di tornare a giocare con Nick. E infatti fu una bella stagione, purtroppo non coronata dalla promozione perché ai play-off fummo buttati fuori da Caserta.

Ormai i 40 anni li avevi passati da un pezzo, eppure nelle serie inferiori trovi ancora chi vuole costruire qualcosa attorno a te.

Volendo avrei potuto restare ancora a Montecatini, ma preferii tornare nella mia terra e farmi coinvolgere in un altro progetto importante. Firmai quindi per il Casalpusterlengo, a pochi chilometri dalla mia Codogno, dove si cercava di salire in serie A. Ma in entrambe le stagioni che giocai lì fummo sempre eliminati in semifinale. Ebbi quindi modo di riassaporare il gioco della serie B, piuttosto diverso da quello della serie A alla quale ero abituato. Meno atletismo ma tanti marpioni, soprattutto molti “mezzi ruoli”, giocatori con caratteristiche fisiche e tecniche che nella serie superiore non avevano possibilità ma che in un contesto spurio come quello della serie B risultavano spesso determinanti.

Ora invece sei tornato a Piacenza, assieme ad un altro grande ex-virtussino come Hugo Sconochini: una carriera contraddistinta dai ritorni.

La voglia di giocare è sempre tanta. E poi, essendo vicino a casa, riesco anche a seguire altre cose. A Lodi ho aperto la “Mario Boni basket school” per avvicinare i ragazzi a questo sport in una realtà che di solito conosce solo il calcio. E se al palazzetto ci vanno 1.500 persone ogni domenica vuol dire che la passione c’è e quindi bisogna lavorarci.

Il fatto che anche a 40 anni suonati tu sia stato uno che in serie A faceva canestro in faccia a chiunque, non ti ha mai fatto pensare che alle nuove generazioni manchi qualcosa?

Veramente io non ho mai pensato agli altri ma, cestisticamente parlando,solo a me stesso. Nella mia testa io sono sempre stato il più forte e quindi ogni volta che scendevo in campo era questo che dovevo dimostrare a me e agli altri, non importa chi avessi davanti, italiano o americano, giovane o esperto. Poi non mi sono mai posto il problema dell'età, anche perché raramente uno sente di avere l'età che risulta dalla carta d'identità: quando in campo facevo 30 punti in faccia ad un giovane americano che correva e saltava il doppio di me, ai miei occhi era la prova che non ero per niente vecchio per questo gioco.

Avendo visto tantissimo basket, a tutti i livelli e in tanti campionati diversi, cosa suggeriresti a Dino Meneghin di fare per cercare di migliorare nel basket italiano?

Innanzitutto direi che l’allenatore della Nazionale dovrebbe essere a part-time. Il nostro movimento non si può permettere di spendere quanto possono fare i club per prendere i coach più forti e allora diamogli la possibilità di allenare in campionato. E poi non capisco a cosa servano quei raduni a stagione in corso dove i titolari non ci vanno perché si devono riposare e quindi ci vanno giocatori che poi, all’atto delle selezioni finali, restano sempre a casa. Mi sembrano dei costi che si potrebbero risparmiare. Un’altra cosa importante è quella di coinvolgere i proprietari delle società: nessun vero rilancio è possibile senza coinvolgere in prima persona quelli che ci mettono i soldi e rischiano in proprio. Bisogna sentire le loro esigenze e tenerne conto, soprattutto nei campionati di vertice.

Si fa un gran parlare di riforma dei campionati, anche per trovare spazio per i giocatori che usciti dalle giovanili non hanno modo di continuare la loro crescita.

Secondo me gli spazi ci sono già. Ad esempio l’A2 di quest’anno è un campionato molto interessante e ci sono 7 italiani per squadra che hanno modo di farsi valere. Anche nella serie A Dilettanti, la ex-serie B, c’è spazio per i prodotti dei nostri vivai. Senza considerare che imporre l’utilizzo di giovani non ancora formati non farebbe altro che abbassare il livello di certi campionati non rendendo certo un buon servizio al basket e alla sua diffusione. Magari i motivi per i quali non sbocciano tanti campioni sono altri: andrebbero più curati i settori giovanili, anche per allargare la base, e poi, insomma, noi italiani non siamo morfologicamente nati per la pallacanestro come gli slavi e fra i non tantissimi atleti di statura che sforniamo dobbiamo subire anche la concorrenza della pallavolo. E nemmeno siamo come gli americani che hanno un sistema sportivo universitario come quello della NCAA che sforna atleti in grande quantità e che genera tanto interesse che poi fa sì che tanti giochino.

Premesso che il tuo standard di combattività è piuttosto superiore alla media, questa sembra essere una caratteristica piuttosto rara nei giocatori d’oggi, specie gli italiani.

La cattiveria non la puoi insegnare. O ce l’hai e non ce l’hai. Per me giocare in serie A era un sogno e facevo di tutto per realizzarlo. Adesso i ragazzi crescono in maniera completamente diversa: il diffuso benessere ha sicuramente contribuito ad ammorbidire il carattere dei giovani, per molti di loro andare all'allenamento è più una scocciatura che una gioia.

Sembra che tu abbia individuato cosa fare dopo l'attività agonistica.

Me lo auguro. Adesso mi sto divertendo a collaborare con i media e devo ringraziare Sabatini, col quale mi sono trovato benissimo nell'anno della promozione, e Sky per le opportunità che mi concedono. Sabatini è persona assai piacevole, intelligente, grande comunicatore: un po' il Mourinho del basket. Mi ha lasciato ampia libertà di scelta, anche di chiamare in trasmissione personaggi in qualche modo scomodi. E siccome a me non piacciono le persone piatte o i commenti omologati, colgo le occasioni che mi sono state offerte per dire quello che penso, anche criticando se ritengo ci sia il motivo per farlo perché penso che anche chi ascolta sia stanco di dichiarazioni di facciata e voglia anche sentir dire le cose che non vanno bene.

Non avevamo dubbi a tal proposito.

VIRTUS, CI VUOLE SUPERMARIO

di Angelo Costa - Il Resto del Carlino - 15/03/2005

 

Messo fuori squadra a Jesi, Marione Boni non tarderà troppo a trovarne una nuova: la Virtus Bologna è lì pronta ad accoglierlo. Per consumar le annunciate nozze bisogna risolver la burocrazia del divorzio prima e del nuovo ingaggio poi, magari allungandolo sulla promessa di un secondo anno: questione di ore, insomma, ma tutto fa capire che si farà.
Più di tutti lo fa capire il diretto interessato, dicendo che Bologna è in cima ai suoi desideri: alla V nera lo vogliono, lui ha voglia di giocare e, magari, chiuder bene una carriera che in diciassette anni di A (Montecatini, Roma, Roseto, Teramo e Jesi) e qualche spicciolo all’estero (Spagna, Grecia) gli ha dato soltanto una Korac, quella del ’97 con l’Aris Salonicco. A Bologna, al momento, gli si offre la chance di dare una mano alla Virtus per tornare nel basket che conta di più: riuscirci non sarebbe poco per farsi ricordare.
Da dimenticare sembra il finale di Mario Boni a Jesi: rientrato dopo un lungo infortunio, il terzo bomber del basket italiano fra quelli che ancora non ci mollano va presto in rotta di collisione col nuovo tecnico Subotic, già incrociato in Grecia e da lui stesso definito «il miglior tecnico che abbia mai avuto». La goccia che fa traboccare il vaso cade nel sito di Roseto sotto forma di intervista: non risparmiando critiche ai compagni e all’ex allenatore della Sicc, Gresta, SuperMario finisce per diventare un problema: subito dopo, vale a dire ieri, finisce anche fuori squadra.
«So che mi hanno cercato in tanti, ma non ho ancora preso nessuna decisione: è un momento particolare, dopo tanti anni mi sento un po’ frastornato», dichiara in via ufficiale. Ma dietro le quinte la macchina è già in moto: primo passo, risolvere il contratto con Jesi, al quale si è legato fino al 30 giugno del 2006, giorno in cui compirà 43 anni. Subito dopo, allacciare un nuovo rapporto con chi si è messo in lista per averlo, ammesso che ci sia davvero fila: la Virtus è comunque la prima, per scelta di tempo e desiderio del giocatore. Che porterebbe alla Caffè Maxim quei punti che mancano soprattutto quando gli altri piazzano la zona.
Dopo averne inseguiti tanti, e spesso buoni, svanito l’obiettivo di riportare a casa Bonora che Roma alla fine ha deciso di non mollare, patron Sabatini è pronto a buttarsi sull’ultima occasione di un mercato di questi tempi povero: la migliore, fino a prova contraria.

LA VIRTUS UFFICIALIZZA L'ARRIVO DI MARIO BONI

www.virtus.it - 17/03/2005

 

Mario Boni è il nuovo acquisto della Virtus Pallacanestro: nella Caffè Maxim vestirà la maglia numero 16, e avrà un ruolo che, secondo Giordano Consolini, potrà aggiungere sicurezza ed esperienza alla squadra. Il giocatore è stato presentato nel pomeriggio presso la sede Virtus. Quando ho ricevuto l'offerta di Bologna, - ha detto - ho pensato subito che era la migliore opportunità che potessi avere. Per me è un onore vestire questa casacca, essere nella città dei canestri, in una delle squadre più blasonate d'Europa: sono molto orgoglioso di questo. Quanto al mio impiego in campo, non ho l'aspettativa di tirare 20 volte a partita, chiaramente. Voglio solo dare una mano a questa squadra, portare esperienza. Non ho velleità personali, qui ho un solo compito: vincere il campionato con la Virtus. Che, peraltro, è già forte, ha perso qualche partita come è normale, ma ogni pezzo è al posto giusto.

Giordano Consolini spiega così il ruolo che avrà il nuovo innesto. Di Mario - dice il coach - apprezzo la schiettezza, anzitutto: poi, non sta a me dire che tipo di giocatore sia Boni, c'è un'intera carriera che parla per lui. La Virtus aveva bisogno di un'aggiunta, in considerazione degli infortuni e in vista dei probabili playoff. Mario è il giocatore che cercavamo da mesi. Ha esperienza, può aggiungere sicurezza al gruppo, è uno che non si spaventa di fronte a niente. Arriva in una situazione già formata, non faremo grandissime variazioni sulle linee guida del nostro modo di stare in campo. Credo che le caratteristiche tecniche di Mario Boni si adattino al modo in cui la squadra gioca.

Mario Boni è nato a Codogno, in provincia di Lodi, il 30 giugno 1963: guardia-ala di 200 cm, ha esordito in serie A1 l'11 ottobre del 1989 nelle fila della Panapesca Montecatini, con cui aveva vinto l'A2 l'anno precedente. Nella città toscana Boni ha iniziato la carriera, restandovi dall'87-'88 fino al '95-'96. Aris Salonicco, Roma, Roseto, Teramo, e Aurora Jesi sono state le altre squadre in cui ha militato, disputando in totale 15 campionati di serie A.
Nella sua lunga vita cestistica vanta una Coppa Korac e una Coppa di Grecia (vinte nel '96-'97 nelle fila dell'Aris Salonicco), 4 promozioni dall'A2 alla A1 (due con Montecatini, poi Roseto e Teramo), e il titolo di capocannoniere di A1 nel '92-'93. Nelle fila della Sicc Jesi, quest'anno ha viaggiato alla media di 15,6 punti in 25,4 minuti: in totale, ha realizzato 10930 punti tra A1 e A2, con una media in carriera di oltre 21 punti, 49% da due e 82% dalla lunetta.

 

BONI: "VIRTUS, VINCERAI LO SCUDETTO E ALLORA TI RICORDERAI DI ME"

di Francesco Forni - La Repubblica - 18/03/2005

 

«Non vivo nel mondo delle fiabe: se la Virtus fosse stata in A1, io all’Arcoveggio, con una tuta bianconera, non ci sarei mai arrivato». Per chi non lo conoscesse, Mario Boni è questo: sa cosa può fare, sa dov’è arrivato. «L’età porta consiglio» dice lui, che resta comunque un ruspante, in campo e fuori: mezza Bologna gli chiederà di far arrivare ben altro, altroché la saggezza.
«Lo so bene. L’unico premio è la promozione e io non giocherò, a 41 anni suonati, per guadagnarmi un triennale. Darò la mia esperienza e quel che servirà: non i 30 tiri, come qualcuno teme. La Virtus non ne ha bisogno. Con Giordano ci siamo parlati: quando entrerò in campo sarà per produrre ciò che so far meglio, muovere l’attacco, attirare raddoppi. Non sono uno da scoprire adesso ed il coach sa cosa posso dare. Non come in Spagna, quando contro il Tau uno s’inventò la box and one e mi mise a uomo su Elmer Bennett».
SuperMario è «franco», parola di Consolini. Non pretende che tutti i blocchi vadano a lui, spiega a parole e con una mimica sempre accesa di non essere venuto a rompere le uova nel paniere. Semmai a provare di riempirlo. «La LegaDue è un campionato da battaglia, dove ci sono pochi specialisti e tanti che invece giocano in due ruoli. Io mi dannerò alla morte. Capo d’Orlando fin qui è stata spettacolare, la Virtus ha sbagliato poco, ma è dietro: la corsa è difficile. Guardiamo solo a noi stessi e cerchiamo di finirla in gloria».
Boni assicura che è pronto a tutto, recuperato l’unico acciacco della stagione, uno stiramento al bicipite femorale, e archiviato l’addio a Jesi. «Non vivacchio, né gioco solo per lo stipendio. Era cambiato tutto rispetto ad inizio stagione, non potevo più stare lì». Cerca la sua personalissima ciliegina d’una carriera che gli ha reso meno di quanto lui abbia dato, non solo in punti. «Voglio la serie A. E basta. Così quando poi la Virtus rivincerà lo scudetto, potrò dire: ho dato una mano per farli tornare in paradiso. Sarebbe un grande orgoglio. Farò il mio, massima disponibilità. L’ho detto, non ho più l’età per poter sperare o pretendere il cielo. Avrò di fianco ottima gente, capace di giocare. I blocchi per me? I punti che segno sono merito di chi dà una mano. Podestà, Pelussi e Casoli: c’è parecchia gente capace».
Domenica si troverà subito contro Esposito, altro bomber d’annata. «Una gara dura, ma stimolante ai massimi. Lui è uno di quelli per cui la gente paga il biglietto». Poi, a innervare il terzultimo attacco della LegaDue, Boni dovrà iniziare subito, vista pure l’ennesima emergenza: Flamini è in dubbio, acciaccato alla caviglia, Casoli sarà certamente out. Nuovi assetti da collaudare per Consolini. «Mario Boni è un giocatore completo, uno che in campo non se l’è mai fatta sotto: non lo scopriamo certo adesso. Sarà un valore aggiunto. Il maestro Nikolic diceva che voleva sempre avere almeno uno dalla panchina in grado di cambiare le partite». Dunque, SuperMario è quel quid mancato alla Virtus in questi sei mesi? «La squadra ha patito infortuni ed è stanca. La sua esperienza e sicurezza saranno fondamentali. S’è reso disponibile ed anche per questo, sfruttando le sue doti, non stravolgeremo il nostro sistema».

 

"VIRTUS, VAI E VINCI"

Domani la prima con Caserta: "C'è molta pressione, ma siamo i più forti. Chi può batterci tre volte su cinque? Non sono più SuperMario ma OverMario per via dell'età. Ma la voglia di giocare è quella di prima. E non mi ritirerò come ha fatto il mio amico Cipollini. Anzi il mio obiettivo è ora quello della quinta promozione e di restare in campo per anni"

di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 28/04/2005

 

SuperMario non c'è più, forse un omaggio all'amico Cipollini che si è ritirato. Boni è un uomo di spirito e, vista la sua "veneranda" età, ci scherza su. "D'ora in poi - dice - chiamatemi OverMario". E OverMario sia, allora 42 anni a giugno e la ricerca della quinta promozione in serie A.

Boni, quattro promozioni in A. quante con la formula dei playoff?

"Mah, fatemi fare una botta di calcoli. L'ultima volta, sicuro, con Teramo. Poi la prima volta, con Montecatini. In mezzo due promozioni dirette, sempre con Montecatini e Roseto".

Mai affrontato i playoff con l'obbligo di vincere?

"Mai. Con Teramo, per esempio, sarebbe già stato un successo raggiungere i playoff. Eravamo una neopromossa, continuammo a vincere".

Quando hai sulle spalle il nome Virtus cambia tutto.

"Siamo nettamente i favoriti".

E questo vi pesa?

"Sinceramente no. Da questo punto di vista sono tranquillo. Una serenità interiore che vedo anche nei miei compagni".

Come la spiega?

"Che per passare il turno bisogna vincere tre gare su cinque. Mica facile farlo con noi. Uno, per ottenere un risultato del genere, deve avere un rendimento incredibile".

Ma la formula, con due gare consecutive in casa, non vi penalizza?

"No. Questo è un gruppo quadrato, come quello di Teramo. Non ci spaventa giocare fuori. Siamo competitivi. E poi anche il nostro impianto metterà timore e soggezione agli avversari, anche se...".

Anche se?

"Siamo i favoriti e abbiamo tutto da perdere. Al contrario Caserta non ha nulla da dimostrare, né tantomeno da perdere. Saranno più rilassati".

Vede che allora un po' di peso c'è?

"No. Siamo tutti professionisti. Massima attenzione e massima concentrazione. E poi siamo tutti più coinvolti. Anche durante gli allenamenti".

Domenica, ad Ancona, s'è vista una Virtus quasi al completo.

"Quasi, perché Pelussi non c'era e Casoli non stava benissimo. Però c'è una panchina lunga e più rotazioni. Quando ho finito, domenica, non ero nemmeno stanco. Questo è un bel vantaggio. Non c'è nessuno che deve sfiancarsi per fare 30 punti. Possiamo spendere più falli e puntare sul giocatore che, dall'altra parte, si imbatte con l'anello debole. Un'arma incredibile per questa Virtus".

Ad Ancona, per la prima volta, lei e Flamini insieme.

"Simone può ricoprire diversi ruoli. Abbiamo un modo diverso di interpretare il ruolo di ala piccola. Ma possiamo giocare anche insieme perché lui ha grande duttilità. Ad Ancona è andata bene, ma il test era limitato".

Ora lavorate sui dettagli.

"Proprio così. Si dice che nei playoff il pallone scotti e diventi più pesante. Ed è così, perché le gare valgono di più".

Guyton è considerato l'uomo playoff.

"È un grande talento che ha una straordinaria tranquillità interiore che rappresenta anche la sua forza. Per questa Virtus è e sarà determinante".

Cipollini si è ritirato. Così lei resterà l'unico SuperMario riconosciuto.

"Non capisco perché questi ragazzini abbiano la smania di ritirarsi. Così giovani, poi. Mi spiace perché si tratta di uno dei più grandi velocisti del ciclismo azzurro. E sinceramente il migliore degli ultimi dieci anni. Io, comunque, non sono più SuperMario".

Che fa? Si ritira anche lei?

"No. Ma ha ragione un mio amico che dice che, vista l'età, il mio nuovo soprannome deve essere OverMario. Però è meglio aggiungere anche un'altra considerazione".

Aggiunga pure.

"Anche se sono diventato OverMario tengo botta. Per diversi anni sentirete ancora parlare di me. Di Mario Boni giocatore naturalmente".

 

"HO FATTO SOLO IL MIO DOVERE"

Leader - A 41 anni Mario Boni ha cambiato carattere ma la voglia di vincere e il senso del canestro sono rimasti quelli di una volta. A Scafati ha segnato 8 punti decisivi nel supplementare traghettando la Virtus in finale."Brewer era stanco, a Scafati giusto che prendessi io certe responsabilità. Questa squadra mi ha cambiato. Adesso mi basta essere utile. "Premiata o Novara, cambia poco perché i più forti siamo noi anche se non siamo al top. Quanto a me, non mi accorgo della fatica. Sono un ragazzino". Partire dalla panchina mi aiuta. Da lì posso studiare gli avversari e quando entro so cosa fare. E d è giusto che in quintetto vada Flamini. Davanti ha una carriera".

di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 24/05/2005

 

La vita comincia a quarant'anni, dicono. Ma se ti chiami Mario Boni e hai 41 anni (42 il 30 giugno) la vita può cambiare radicalmente.

Boni, torniamo al supplementare di gara quattro.

"Perché? Cosa è successo?".

Otto punti suoi Virtus in finale.

"Era un momento importante, Corey era affaticato, avevo il dovere di prendere qualche responsabilità in più".

Tanta rabbia per riscattare le due uscite precedenti?

"In gara due avevo giocato male. Nella prima a Scafati, per quello che è il mio ruolo, penso di aver disputato un match decoroso. Gara due mi bruciava parecchio".

Montegranaro o Novara?

"Non cambia molto, loro giocano una bella pallacanestro. Ma noi...".

Voi?

"Siamo la Virtus, siamo i più forti, anche se dobbiamo migliorare".

Lei ha creduto alla finale anche sul -17?

"Siamo finiti così sotto?".

Il punteggio era 41-24.

"Non me ne sono accorto. Il basket è bello per questo".

Dopo aver raggiunto questa finale si sente uno dei leader di questa Virtus?

"Mah, io sono venuto qua, due mesi fa, con un'idea precisa. So che la gente, conoscendo il mio passato, si aspetta 30 punti. Ma sono cambiate molte cose. Prendo quello che mi viene concesso e cerco di sfruttarlo nel migliore dei modi. Aiutare la Virtus può voler dire costringere gli avversari a raddoppiare la marcatura sul sottoscritto".

È arrivato con la fama di rompiscatole.

"Dura togliersi le etichette di dosso. Però è vero, sono un rompic... O meglio lo ero. La Virtus mi ha cambiato".

È un azzardo dire che prima c'era Mario Boni e poi la squadra. E che ora il rapporto si è capovolto?

"No. È proprio così. In passato non avevo mai accettato squadre che non fossero costruite sulle mie caratteristiche. Qui è diverso. E sono contento. Mi sento un po' la zeppa che va messa sotto il tavolo, quando traballa, se c'è bisogno, do una mano".

Non parte in quintetto: le pesa?

"No, anzi. Sono contento. Dalla panchina studio gli avversari. Giusto puntare su Flamini che ha tutta la carriera davanti. E poi così. Quando entro, so sempre cosa fare".

Dica la verità: non si sente stanco?

"Io? Mai. Sarà la passione, sarà che l'età anagrafica è così diversa da quella biologica. E io, addosso, mi sento 10-15 anni in meno. Sono un ragazzino".

 

 

QUANDO MESSINA DISSE: "GIORDANO, PRENDI MARIO E VAI SU"

di Walter Fuochi - La Repubblica - 04/06/2005

 

«Giordano, prendi Mario». Lo sponsor è insospettabile: lo stesso che, nella sua squadra, Boni non lo volle mai. Già, basta sfogliare le guide. Boni Mario, classe ‘63, presenze in nazionale una. Siena, febbraio ‘92, Italia-Cecoslovacchia 75-57: Gamba allenatore, lui 7 punti. Amen. Nel ‘93 Azzurra passa a Messina, nel ‘94 Supermario trascina Montecatini a 30 punti grassi a partita, numero uno in A1, ma in Nazionale vanno Bullara e Ruggeri. Diecimila e rotti punti, tra quelli fatti e quelli da fare, al prode Ettore non servono.
«Giordano, con Mario vai su. E se lo prende Scafati, invece, ci vanno loro». Adesso è roba fresca. La trama della stagione spiega ben più dei tabulati dei cellulari di Consolini e Messina: che piazzerebbe poi questo colloquio dopo un +39, a Sassari, girando in notte d’ansia una notte quieta. Già, scorre l’inverno e Capo d’Orlando non si ferma più. La Virtus invece tossisce, sferraglia, perdicchia. Ce ne vuole un altro, chiaro come il sole. Uno che l’infili. E anzi, quando si rompe Parente, ce ne vogliono pure due. Sabatini fa il giro delle sette chiese. A Jesi, luogo del destino, già conosciuto come amara valle di lacrime, si ferma. È arrivato Subotic, che per salvarsi cambierà mezza squadra: cedibili, anzi, te li portano a Bologna sul cannone della bici, soprattutto due. Boni e Rombaldoni.
Il Sabba punta sul Romba. Con Jesi chiude: 250 mila euro di buy-out e l’argento d’Atene è suo. Romba è però già in amorose trattative con Savic, sogna Barcellona, Atene e Mosca, mica Montegranaro, Pavia e Imola (zitti, fareste tutti lo stesso sogno). Magari la spinta giusta è proprio che se lo stia pigliando la Virtus: Re Giorgio dà l’okay a Zoran, in due ore Jesi riscrive le carte con la Fortitudo. Era "Sliding doors" il filmetto che raccontava opposti destini salendo o perdendo un vagone di metrò? Sì, era quello, ma qui, al tempo felice del paese dei balocchi, avevamo già visto "Via col vento": Myers, Fucka, Basile, quante porte girate in un attimo. E poi, in questo caso, la storia somiglia più a Ginobili-Meneghin, lo scambio di persona più folle di Basket City.
Lo sapete: Messina era affranto quando il figlio di Dino cambiò idea, maglia e lettera (Effe per Vu). In un cassetto c’era l’opzione su Manu: vabbè, pigliamo lui. Subito abbagliante per nitidezza di risultati, lo scambio di destini è ora attraccato ad esiti drammatici nel loro divaricarsi, se l’uno giocherà a giorni, da prima o seconda punta, una finale Nba e l’altro chiederà ad un nuovo calvario per sale operatorie l’ultimo decoroso scampolo di una carriera ora fantastica ed ora dissipata. Boni e Rombaldoni sono ovviamente altro: resta però questa casualità che oggi premia la sorte virtussina, poiché Mario, anche senza sparare raffiche, ha tiranneggiato sull’overtime di Scafati, forse la vera partita della A, mentre fra stenti, fatiche e guai fisici, il bello di Rombaldoni ancora non s’è visto.
A 42 anni, Supermario Boni inciderà il suo nome tra i cavalieri che fecero l’impresa, dopo averne firmate mille altre, anche se questa resurrezione d’un vessillo glorioso è il fiotto d’adrenalina che, al suo picco massimo, tutt’al più accosta i giorni in cui, vinta una Coppa Korac, i tifosi di Salonicco gridavano estasiati «viva l’italiano pazzo»; oppure, al minimo, i tempi cupi di due soste per doping, quando la linea di difesa fu che qualche pasticca in più gli doveva servire per non deludere in luna di miele. Supermario entra, tra i grandi, in un Walhalla molto affollato, ma non ci sfigura. Io può, diceva quel tale. Io c’è, può dirlo anche lui.

 

BONI: "IO RITIRARMI? SÌ, MA A CINQUANT'ANNI"

di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 06/06/2005

 

Boni, che cosa fa, si ritira?

Non ho capito bene la domanda.

È un quesito inerente il suo ritiro dopo aver condotto la Virtus in serie A.

Appunto. È la domanda che è sbagliata. Perché l’ho detto e ripetuto. Mi ritirerò, certamente, ma non prima di aver compiuto 50 anni. Pensate che mi è stato chiesto di fare il general manager. Ma quale giemme, io voglio giocare.

Considerando che ne festeggerà 42 anni il prossimo 30 giugno dobbiamo dedurre che vorrebbe restare in bianconero.

Proprio così. Ma partiamo con ordine. Il ritiro è il concetto che è più lontano dalla mia mente. Sto bene e conto di mantenere questa condizione a lungo. Ecco perché voglio continuare a giocare.

Intanto ha vinto la scommessa a distanza con il suo amico Niccolai.

Andrea, per dirla tutta, è stato sfortunato. La Virtus l’anno scorso giocò bene, ma arrivò in finale dovendo affrontare le prime due gare in trasferta. Credo che la differenza principale sia questa. Io ce l’ho fatta, ma anche Nick era arrivato a un passo dalla A.

Ce l’ha fatta nel modo più inusuale per lei. Si è messo al servizio del gruppo.

Vero. Forse devo farmi i complimenti. Battute a parte, l’approccio, qua, è stato molto chiaro fin dall’inizio. Consolini mi ha spiegato quello che voleva da me. Ho accettato, cercando di essere la famosa zeppa. Quella che metti sotto il tavolo quando ti accorgi che traballa.

Ora, però, vorrà tornare a essere SuperMario.

No. Ho scoperto, grazie a Giordano Consolini, che si può essere utili in altro modo.

La sua situazione contrattuale?

Sono free agent ma per la Virtus sono disposto a fare il gregario a vita.

Lei un gregario?

Sì. Perché restando qua avrei la possibilità di giocare l’Eurolega. Non l’ho mai fatta e mi intriga parecchio.

Eurolega no, ma la Korac…

Quel trofeo l’ho vinto quando contava qualcosa. Lo alzai al cielo giocando in Grecia, battendo, nell’ordine, il Partizan Belgrado che avrebbe vinto poi il campionato del suo paese, la Benetton che avrebbe portato a casa lo scudetto e pure il Tofas Bursa. Che se non trionfò in Turchia ci andò molto vicino.

Insomma il regalo di compleanno più bello, per lei, sarebbe un nuovo contratto con la Virtus.

Mi piacerebbe restare, ma non dipende da me. Ma per la Virtus sono disposto a dividermi, un po’ don Chisciotte, un po’ gregario.

 

CON MARIO TUTTI... BONI

di Alessio Torri - Bianconero - 07/2005

 

Dovessimo dar retta alla carta d’identità, non dovremmo esitare un istante, perché a quasi quarantadue anni in pochi riescono ad essere ancora sul parquet. Mario Boni però, è uno di quei personaggi la cui memoria continua imperterrita a lacerare gli animi. Lunga gavetta che, solo dopo i trent’anni, gli attribuì il passaporto di bomber consacrato, attraverso un processo volutamente allegorico di sana follia collettiva. E così, dopo una vita spesa in giro fra Italia ed Europa, SuperMario sorprende ancora per mentalità e grinta: un uomo solo al comando, mai dimenticato in tutti i parquet calcati (4 promozioni ed una Korac), che di lui portano solo ottimi ricordi. Questo è Mario Boni, un gigante del nostro basket, uno dei pochi ancora in grado di fare reparto. Come giustamente sottolineato da coach Consolini, a Bologna non dovrà essere il salvatore della patria, semplicemente perché qua non c’è nessuna patria da salvare. Piuttosto un’aggiunta verso un gruppo già competitivo, secondo in campionato. Ed allora, cosa potrà offrire l’incedere sempre ritto di questo ragazzino di Codogno? In un campionato di LegaDue, da due a quattro, Mario può coprire almeno tre posizioni, offrendo quel quid in più nei cambi di ritmo-gara. Degli esterni bianconeri è quello più camaleontico, con qualche escursione a sorpresa persino nel ruolo di ala forte per compiti tattici. Soluzione praticabile contro quintetti veloci, in cui il quattro avversario sia di pari stazza. Con lui sarà una Caffè Maxim differente, maturata fra assetti impregnati di realismo, i quali, in quel crogiolo di prime punte che oggi Consolini ha, obbligheranno le difese a delle scelte. Contro questo “attira raddoppi” in tanti possono raccontare d’aver perso il sonno, mentre i compagni di squadra hanno spesso beneficiato di quel metro in più per allestire fiaccolate. La sua forza è sempre stata quella di emettere responsi conformi al profilo da bomber, persino in Grecia, notoriamente campionato restio agli alti score. Inutile dirlo, qui a Bologna l’abilità di SuperMario starà pure nella sensibilità di lettura verso le situazioni: in un gruppo che lavora da mesi, con Guyton e Brewer a spartirsi le maggiori doti offensive, a Boni verrà chiesta la convivenza offensiva, regalando ad uno shooter come AJ maggior spazio per le conclusioni. Nessun conflitto d’interesse quindi, sicché, la bulimia offensiva vissuta ai tempi di Montecatini non sarà più nemmeno necessaria. Superando così il luogo comune che, attorno a Mario Boni, sia necessario costruire un fortino di specialisti difensivi. Il basket nostrano insegna infatti che col solo talento non si vincono le gare. Perché, anche contro avversari qualitativamente inferiori, occorre prima di tutto pareggiarne l’impegno e solo da qui in poi, il maggior tasso può fare la differenza.

SuperMario festeggia la promozione con A.J. Guyton e Bennet Davison

FACCIA A FACCIA CON MARIO BONI

Bianconero - 10/2005

 

Il faccia a faccia di questo numero è del tutto particolare. E’ un faccia a faccia che la Virtus ha avviato con il suo pubblico e i suoi tifosi. E per questa nuova forma di partecipazione alla vita della squadra impegnata nei playoff, la Virtus ha scelto di rivolgersi agli iscritti a We love Vu, che ormai sono quasi 2000. Mario Boni è stato il primo ad incontrare un gruppo di utenti della community, che si sono intrattenuti con il bomber di Codogno per una chiacchierata durata mezz’ora. Qui, le prime domande e risposte dell’incontro – pilota; il contenuto del secondo incontro, con Giordano Consolini, è già a disposizione esclusiva degli iscritti a We love Vu.

Mario, nella tua carriera sei stato bandiera, straniero determinante, ora giocatore esperto...

Io mi identifico molto con la realtà del posto. E amo le sfide: arrivo in una squadra senza voler essere riconosciuto per quello che ho fatto in carriera, ma per mettermi in discussione, per guadagnarmi la fiducia del coach e della gente. Ho sempre avuto voglia di combattere, e poi sulla strada mi sono trovato, e ho scelto, le sfide. E mi piace sposare i progetti, questo è il mio stimolo principale.

Trovi che i giovani abbiano ancora questo tipo di mentalità "combattiva", oggi?

Sinceramente un po’ manca questa mentalità nei ragazzi che si affacciano al basket oggi. Essendomi allenato ormai con tanti ragazzi, posso dire che molti non affrontano con entusiasmo l’idea di far parte dei 10. Quando mi dissero che, a Vigevano, sarei andato in panchina con la prima squadra, mi misi quasi a piangere, e ci andavo anche con la febbre a 39...

Restando ai giovani: come vedi la regola che impone un numero minimo di italiani?

Sinceramente ha un senso, perché dalla Bosman in poi il movimento si è un po’ impoverito. Dobbiamo far giocare gli italiani perché credo che lo sport sia un valore culturale di questo paese: gli stranieri sono bravi e sono necessari per elevare il livello del gioco, ma mi piacerebbe vedere dei giovani italiani che crescono. Per questo, bisogna ricreare dei grandi settori giovanili.

Parliamo di Virtus? Come sei arrivato qui da noi?

Con la voglia di partecipare a questa nuova grande sfida. Per me mettere piede al PalaMalaguti, dove ci sono appesi i trofei, dove si respira la storia, è stata una grande emozione. La Vu nera sulla maglia è davvero significativa: trovare l’emozione, lo scopo, la voglia, qui, è stato facile.

Tu sei un giocatore di carattere in questo gruppo…

Sono un combattente, come Pelussi, o come Corey, che è uno che eleva la concentrazione, la voglia di vincere di tutta la squadra. Io sono uno schietto, uno che vuole con tutto il cuore che le cose vadano bene e mi impegno al massimo per questo.

Come vedi questi playoff?

La squadra è fortissima, davvero, me ne rendo conto ogni giorno di più, e credo che possiamo e dobbiamo vincerli.

E tu come ti senti?

Io amo questo gioco e mi sento bene fisicamente. E mi va benissimo il ruolo che mi ha dato Giordano: non devo stare in campo fin dall’inizio, ma entro dalla panchina e mi sento già caldo, pronto ad entrare nel vivo dell’azione. Sento di poter essere utile in vari modi, ad esempio per procurarmi dei falli, magari quando gli avversari sono già in bonus. Insomma, sono molto soddisfatto.

 

MARIO BONI, L'ETERNO SOTTOVALUTATO

di Riccardo Romualdi – autore di "Storie di basket"

 

Io non sono la quercia che un fulmine può abbattere, un uragano sradicare.

Io sono come la gramigna: quella, anche se bruci il campo, rinasce. Più forte di prima.

Una vita da sottovalutato. Vent' anni a far canestro ad ogni latitudine, in ogni palazzetto, davanti a folle sterminate o a quattro pellegrini. Avventurarsi in terre ed in leghe mai esplorate nemmeno nella fantasia da un giocatore italiano. E farne 20, 30 a sera. Ogni sera. Ogni maledetta sera. Per dimostrare che, nonostante tutto e tutti, il più forte è sempre lui. Mario Boni è questo, forse non solo questo, ma soprattutto questo. Uno dei più incredibili realizzatori della storia del basket italiano, ma anche uno che per mille motivi non è mai stato su palcoscenici prestigiosi nonostante abbia giocato ovunque. Senza mai smettere di fare canestro.

Nasce a Codogno nel 1963. Terra di basket, e per Mario la palla arancione diventa presto una malattia. Cresce nella Fulgor Codogno, non certo una piazza di prima fascia. Nelle giovanili non viene notato da nessuno. È alto, magrissimo, e come succede nelle giovanili di basso livello, quello alto viene messo a fare il lungo. Fa canestro ma non impressiona. Troppo magro e basso per fare il lungo ad alti livelli, troppo lento per giocare da guardia. A 19 anni, finite le giovanili, l'unica roba che rimedia è una C2 a Piacenza. In pochi si accorgono che il ragazzo ha il fuoco dentro e che la sfiducia la vive come una sfida personale. In C2 si allontana da canestro: la sua tecnica non è (né mai diventerà) pane per gli esteti, ma la sua capacità di "sentire" il canestro è abbacinante. Ne mette 40 a sera; chiarisce che quella non è certo la sua dimensione. Vigevano se ne accorge e lo porta subito in A2. Però crede poco nel progetto: tanta panchina il primo anno, la retrocessione e qualche minuto in più l'anno dopo in serie B. Boni scalpita: sente che quello che gli viene chiesto non gli permette di esprimersi. Montecatini va a cercarlo, si parlano, Boni accetta solo se avrà le chiavi dell'attacco; insomma vuole essere protagonista. È il 1985, Montecatini è in serie B e cerca la promozione: la furia di Boni è quello che fa per lei.

Boni in B scherza con gli avversari: nessuno riesce a tenere questo giocatore atipico, troppo alto per essere marcato da un esterno e troppo tiratore per essere marcato da un lungo. Si carica la squadra sulle spalle e la porta in A2 dichiarando "Non sono arrivato qui per caso: se qualcuno ha ancora qualche dubbio su quanto vale Mario Boni, glielo toglierò". E così è. In A2 fa quello che ha sempre fatto: canestro. Montecatini capisce di aver trovato il suo leader e si aggrappa lui, mentre il basket italiano continua a snobbarlo: i giudizi che si rincorrono sul suo conto vanno dal troppo egocentrico, all'egoista, fino allo spacca-spogliatoi e così via. A Boni interessa poco, lui sa dove vuole arrivare e nel 1989 lo capiscono tutti: serie A con Montecatini; Boni diventa SuperMario, ma la sua sfida al mondo è appena cominciata.

A Montecatini intanto esplode Niccolai. Il "Golden Boy" del basket italiano diventa la stella più lucente. Boni si adegua: lui ad essere poco considerato ormai ci ha fatto il callo. Per Nick arrivano le prime chiamate dalla Nazionale, le luci della ribalta, i titoli dei giornali. Montecatini però ha problemi economici, si parla di americani non pagati. Arriva la retrocessione e per ripianare i debiti viene ceduto il gioiello Niccolai al Messaggero Roma per la cifra più alta della storia del basket: 13 miliardi di lire! Anche a Boni viene chiesto se vuole essere ceduto: Mario dice no, non vuole lasciare Montecatini in A2, non vuole lasciare la società che l'ha lanciato nel momento di maggior difficoltà. Promette che riporterà Montecatini in serie A. Per i tifosi diventa un idolo. Ovviamente Boni mantiene la promessa: è il 1991, Montecatini dopo un esilio di 3 anni a Lucca a causa di un palasport i cui lavori non hanno mai fine, torna a casa e lo fa per acciuffare la promozione. Questa volta Boni è deciso a rimanere nel campionato maggiore e comincia a segnare caterve di punti. La stampa spinge per una convocazione in nazionale (nel cui ruolo al momento c'è Donato Avenia). E la convocazione, l'unica della sua carriera, arriva per un'amichevole a Siena! Boni viene accolto da una bordata di fischi, lui risponde salutando beffardamente la folla. Fa 7 punti in 11 minuti, poi viene fatto accomodare in panchina, per l'ultima volta.

La strada per dimostrare chi è passa da Montecatini. Boni nel '93 diventa il miglior marcatore della serie A, primo italiano 30 anni dopo Dado Lombardi, mettendosi dietro gente come Djordjevic, Mitchell e Richardson. Ad alto livello nessuno lo considera, nessun giornale gli concede la prima pagina. Tranne nel 1994, quando il fango lo travolge. In un controllo antidoping di routine, viene trovato positivo al nandrolone. Boni si dichiara subito innocente: dice che si è fidato dei dottori che gli avevano prescritto una cura con medicinali di cui lui non conosceva i componenti. Purtroppo la sua immagine di brutto, sporco e cattivo non lo aiuta. La federazione non gli crede e gli affibbia 2 anni di squalifica (a Davids anni dopo verranno dati 3 mesi, ndr). A 31 anni, il sottovalutato Boni, viene dato da molti per finito.

Mario, ancora una volta e come sempre, la prende come una sfida personale. In Europa per due anni non può giocare. Prende un aereo, va negli States. All'Nba non ci pensa nemmeno. Va dove gli sporchi e cattivi li accolgono a braccia aperte: la Cba. Memphis Fire e Yakima Sun City sono la nuova casa di uno che fino a qualche mese prima era il miglior marcatore della serie A. Hotel di infima categoria, migliaia di chilometri in pullman angusti, un panino all'autogrill come pasto prima della partita. Boni si adegua, scrive un libro il cui titolo dice tutto "Tornerò più forte di prima". Si sente vittima di un'ingiustizia e ha sete di rivincita. La Federazione intanto gli riduce la penalizzazione di un anno e, ovviamente, Montecatini subito lo richiama. È il 1995 Mario torna a casa, ne mette 26 di media, ma sa che a 32 anni, se vuole provare a vincere qualcosa, deve cercarsi una squadra di alto livello. In Italia si trova solo porte in faccia. La sua immagine è ormai sporcata da uno scandalo che non ha precedenti e che non gli viene perdonato. Decide di andarsene ancora una volta con la maschera di cattivo. Ma c'è un altro luogo dove i cattivi trovano ampia ospitalità. Grecia. Dai più cattivi di tutti: quelli dell'Aris Salonicco.

Dopo un breve periodo di ambientamento, alla seconda di campionato, un avversario americano, dopo un contatto proibito, lo provoca apertamente; Mario gli risponde con 4 bombe consecutive, urlandogli in faccia tutto il repertorio del trash talking imparato nella Cba. Il palazzetto risponde con un boato: Mario trova il rispetto che ha sempre cercato. Trascina l'Aris alla vittoria della coppa di Grecia, ma è soprattutto in coppa Korac che non ha rivali: arriva in finale contro i turchi del Tofas Bursa, ne mette 26 provocando ripetutamente gli ultras avversari. L'Aris vince, Boni esce dal palazzo scortato dall'esercito. Ritornato a Salonicco trova migliaia di persone ad attenderlo ed i giornali titolano "Il Dio dell'Aris" con la foto di Mario che alza la coppa.

Ma ancora una volta non è qui che vuole dimostrare il suo valore.

Torna in Italia nel 1997 a Roma. Gli chiedono di fare lo specialista dalla panchina. Non è il suo ruolo, fatica, chiede di andarsene. Intanto una nuova inchiesta sul doping lo travolge. Si apre un nuovo processo: Boni se ne va in Spagna ai Los Lobos Cantabria, mandando apertamente tutti a quel paese. Dichiara che non tornerà mai più. Poi però viene assolto. Roseto intanto lo chiama, tocca i tasti giusti. Boni non vuole che la sua ultima stagione in Italia sia ricordata per la fuga.

Nei primi mesi del 2000, a 37 anni, va a Roseto. La realtà di provincia gli fa respirare atmosfere antiche. Il pubblico lo acclama, lui risponde con la promozione in A mettendo il suo solito trentello. Roseto lo tiene un altro anno poi, considerandolo vecchio, lo rilascia. Boni vive il tutto (come sempre) come un affronto. Firma immediatamente con i rivali storici di Teramo in Legadue: li trascina in serie A per poi salvarli l'anno dopo. È il 2004, il 41enne Boni fatica, nonostante tutto, a trovare un ingaggio. Ci prova Jesi, costretta poi a tagliarlo per faide interne allo spogliatoio. A Gennaio la Virtus Bologna in piena ricostruzione e bisognosa di un nome di richiamo, lo tessera. Mario ringrazia con l'ennesima promozione in A.

Intanto a Montecatini, dove dopo anni difficili ritorna il basket di alto livello, si ricordano di Niccolai ed il primo nome da affiancargli è proprio quello dell'eterno gemello: Mario Boni. Due anni a metterne 20 e a trascinare Montecatini a comode salvezze. Poi la scorsa estate una mezza idea di smettere che, a 43 anni, sarebbe più che legittima.

A Casalpusterlengo in B1, memori di una vecchia promessa in cui Mario diceva che prima o poi avrebbe giocato per loro, sottopongono a Boni un contratto. Annuale? Macché! Triennale! Mario firma. La sfida di giocare fino a 46 anni lo affascina. Oggi in molti dicono che sia finito (nonostante i 20 di media), che sia andato a svernare e a prendere gli ultimi soldi. Insomma in molti lo sottovalutano. Per l'eterno sottovalutato, però, è solo un'altra sfida da vincere.

tratto da Bianconero, 08/2005

Nome Mario
Cognome Boni
Numero di maglia 16
Soprannome SuperMario
Fidanzato/sposato? Sposato con Arianna
Consolini è… … l’allenatore
Il compagno più serio Qui sono tutti pronti a scherzare
Il compagno più scherzoso Mais
L’esperienza americana è stata… Traumatica
Il coach che ti ha insegnato di più Benvenuti
Emozioni: meglio bomba o canestro più fallo? Canestro più fallo
…venticinque punti o 5 assist? Venticinque punti!
La tua specialità in campo Uno contro uno e pick and roll
Cosa pensi dell'altro (Anthony Giovacchini) Sa valorizzare molto bene la squadra
Il tuo più grande valore La lealtà
Il tuo idolo cestistico Bob Morse
Come ti immagini alla fine della carriera? Spero di giocare ancora a lungo! Poi, andrò a Montecatini
Il tuo hobby La lettura
I preferiti: film Da Zero a Dieci di Ligabue
… libro Confesso che ho vissuto
… cantante o un gruppo musicale Francesco Guccini
… canzone Vorrei, di Guccini
Il tuo piatto preferito? La Casòla, piatto tipico lombardo
La vacanza della vita … Quelle che ho fatto sono tutte indimenticabili
Un sogno da realizzare Giocare fino a 50 anni
Per te Virtus vuol dire? La storia del basket