RAFFAELLO ZAMBONELLI

(giocatore)

Zambonelli quando era già passato al ruolo dirigenziale (foto tratta dall'Archivio SEF Virtus)

nato a: Bologna

il: 29/08/1920 - 17/11/2018

altezza:

ruolo:

numero di maglia:

Stagioni alla Virtus: 1936/37 - 1938/391940/41 - 1941/42

(in corsivo la stagione in cui ha disputato solo amichevoli)

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IL PIÙ VECCHIO VIRTUSSINO

di Roberto Cornacchia per Virtuspedia - Ottobre 2009

 

Raffaello Zambonelli, nato nell’agosto del 1920, può, a giusto titolo, ritenersi il più vecchio virtussino al mondo. Nell’agosto del 1933, come premio per il compleanno e per la promozione ottenuta a scuola con buoni voti, il padre lo portò alla Santa Lucia, la chiesa sconsacrata che prima della II Guerra Mondiale era la sede della Virtus. Chi gli rilasciò la tessera fu Mario Negroni, il padre di due grandi giocatori della Virtus, Carlo e Cesare, che vinsero scudetti e furono convocati in Nazionale. Fin da subito la storia prende un sapore di affetti familiari, di vicinanze, di sentimenti che nel moderno mondo del basket ormai non trovano più cittadinanza.

Quando iniziò a giocare?

Cominciai con la ginnastica che all’epoca era uno sport molto più conosciuto e importante della pallacanestro. Ricordo che c’era Filippo Giuli, proveniente dall’atletica. Era stato un saltatore in alto con un personale di m. 1,30 che oggi fa un po’ ridere ma all’epoca era una misura considerevole. Fu lui il primo a portare un pallone e a cominciare a provare con questo nuovo sport dove anche saltare in alto poteva essere utile.

C’erano già tanti dei giocatori che avrebbe costituito la Virtus pluriscudettata del primo dopoguerra.

Difatti, allora la pallacanestro non solo era una questione cittadina, addirittura era una questione di quartiere, se non proprio di un’unica strada. Praticamente quasi tutti abitavamo in Via Castiglione nel giro di un centinaio di metri. Quindi, come puoi ben immaginare, c’era anche profonda amicizia tra di noi, non c’era bisogno di infondere lo spirito di squadra perché quello era naturale, perché eravamo un gruppo di amici anche nella vita.

Come fu il suo periodo da giocatore?

Breve, ahimé. Iniziai nel ’41 e praticamente giocai 3/4 anni prima dell’interruzione per l’evento bellico. A parte l’interruzione vera e propria dei campionati degli anni 1943/44 e 1944/45, anche negli anni subito precedenti la squadra aveva cominciato a subire defezioni causa la necessità di mandare uomini al fronte. Giancarlo Marinelli infatti partì prima di altri negli avieri, invece Bersani e Vannini rimasero più a lungo.

Come fu che tornò alla Virtus?

Io ho sempre sentito l’appartenenza alla Virtus e, anche se avevo smesso di giocare per lavorare, la seguivo sempre come potevo. Facendo strada nel mondo del lavoro, arrivai a ricoprire un ruolo dirigenziale presso la Minganti, una fabbrica meccanica fra le più importanti di Bologna a quei tempi. Nel ’53, essendo cugino della Signora Gilberta Minganti, la convinsi a comprare la società e la Virtus divenne una delle primissime società dello sport italiano ad avere uno sponsor sulle maglie. Io ne sono stato presidente o dirigente a vario titolo per quasi 17 anni, fino a quando vennero cedute le quote all’avvocato Porelli.

Anni inizialmente ricchi di soddisfazioni.

Vincemmo subito due scudetti e poi facemmo una miriadi di secondi posti. Ma vincere non era l’unica cosa importante. C’era la Virtus da seguire, i suoi valori da perpetuare, anche solo conseguire questo era un risultato considerevole. Furono gli anni in cui si alternarono diversi dirigenti: Francesco Gazzoni Frascara, vice-presidente nel periodo in cui fu sponsor con l’Idrolitina; Ettore Casella, uno dei proprietari dell’Oransoda e del quale sono fiero di aver sventato il tentativo di spostare la squadra a Cantù, come potrebbe testimoniare Gazzoni Frascara; Galeazzo Dondi, grande ex-giocatore e poi affermato dentista; Giorgio Neri, che veniva dalla sezione tennis e che della Nazionale di tennis fu anche Commissario Tecnico.

Erano anni in cui fare il dirigente sportivo significava fondamentalmente improvvisare, non c’erano né scuole né esperienze precedenti alle quali attingere.

Verissimo. Ma quando fai una cosa con passione, quando sei animato dalla volontà di fare bene, quando sei circondato da persone che come te perseguono con onestà e dedizione lo stesso obiettivo, le cose vengono da sé. Quando c’era da prendere un giocatore, ci si consultava, si confrontavano i propri pareri e si decideva di comune accordo cosa fare. In questo avevo un buonissimo rapporto con Tracuzzi, che ogni volta che affrontava gli avversari si prendeva nota dei giocatori più interessanti.

Quindi all’epoca fare il presidente significava occuparsi anche e soprattutto di mercato.

Era una delle cose più importanti. Ricordo la trattativa per Silvio Lucev condotta con due dirigenti del Gira. Quando si trattò di convincerlo, visto che non voleva venire, offrii un milione di lire, di tasca mia. Non lo chiesi nemmeno alla proprietà, agii d’istinto. Fu per me un grande dolore quando scomparve prematuramente. Poi però agli inizi degli anni ’50, le squadre smisero di avere la connotazione prettamente cittadina che le aveva contraddistinte fino ad allora. Per rimanere competitivi con squadre come Milano, che prendeva giocatori soprattutto da Trieste, bisognava andare a cercare i migliori giocatori d’Italia per portarli a Bologna. E oltre ai soldi, che cominciavano a girare proprio allora, per i giocatori era anche importante sapere dove si andava a giocare. Avevo convinto Nino Calebotta che era del CUS Milano. Dopo un anno in Brasile (era figlio di diplomatici zaratini) ero andato a prenderlo al porto di Genova al suo ritorno. Achille Canna ero andato fino a Gradisca per convincerlo. Convinsi anche Mario Alesini ma Varese, detentrice del suo cartellino non ce lo volle dare. All’epoca c’era una disposizione federale che prevedeva che un giocatore che cambiava società senza il nulla-osta della precedente doveva stare fermo un anno. Mario accettò di perdere un anno nel pieno della sua carriera perché voleva venire alla Virtus: non lo avrebbe fatto per una squadra qualsiasi. Vincemmo prima ancora che lui arrivasse. E rivincemmo l’anno seguente, con lui. Un altro acquisto importante fu quello di Dado Lombardi, che andai a prendere a Livorno ancora 17enne.

La faccenda si complicò con gli stranieri.

Appena si rese possibile questa cosa, nel ’55, la maggior parte delle squadre si rivolgeva ad atleti europei o comunque già in qualche modo in Italia. Difatti avevamo avuto l’egiziano Chalhoub, un onesto giocatore ma niente di eccezionale, mentre a Milano, che ci aveva appena soffiato il titolo, era arrivato un americano di ben altro valore, Ron Clark. Decisi allora di andare a cercare un giocatore valido per l’anno successivo. Ne parlai con gli americani che erano già in Italia come il nostro ex allenatore James Larry Strong e altri che erano al Gira. Mi feci dare qualche indirizzo, presi l’aereo e andai al Madison Square Garden di New York a vedere alcune partite, sia di basket universitario che professionistico. C’era un abisso di differenza, molto più di adesso o qualche decennio fa. In Italia i giocatori in pratica arrivavano con la borsa, si cambiavano e giocavano. Il più delle volte la doccia non c’era e, se c’era, era fredda anche d’inverno. Lì c’erano allenamenti, organizzazione, professionismo. Avevo l’indirizzo di questo Fletcher Johnson. Mi recai a casa sua e parlai soprattutto con la madre. Siccome il ragazzo stava ancora studiando e voleva laurearsi in Medicina, ovviamente feci presente che l’università di Bologna era la più antica del mondo e una delle più prestigiose. Suo figlio avrebbe quindi potuto giocare e prendere qualche soldo, senza pregiudicare il suo percorso di studi. Lasciai tutte le referenze sulla Virtus e sull’università e poco dopo la madre mi chiamò dicendo che accettavano la mia offerta. Ricordo anche che, al mio ritorno, un paio di quotidiani descrissero questa mia avventura nella patria del basket: in pratica feci da apripista e i viaggi in America a cercar campioni divenne poi, nel tempo, pratica abituale. Fletcher Johnson poi, dopo aver giocato da noi, proseguì gli studi e divenne un cardiochirurgo di fama internazionale e rimase talmente innamorato dell’Italia da venirci in vacanza tutti gli anni.

Ci dica di qualche affare sfumato.

Ci furono anche quelli ovviamente. Due su tutti. Uno fu quello di Riminucci: ero andato fino a Pesaro, l’avevo praticamente convinto e avevamo già trovato l’accordo quando all’ultimo momento Bogoncelli dell’Olimpia saltò fuori con un’offerta economica faraonica e io non potei farci niente. Un altro che fu davvero ad un passo dal diventare virtussino ma che non lo diventò mai fu Arnaldo Ninchi. Anche lui pesarese, a 17 anni già nel giro della Nazionale, l’avevo contattato. Avevamo stabilito i termini dell’accordo ma capivo che c’era qualcosa che lo tratteneva, che lo faceva tentennare. Parlando mi disse che il suo unico dubbio era dovuto al fatto che sua cugina, la grande Ave Ninchi, gli aveva detto che avrebbe potuto avere delle prospettive nel mondo dello spettacolo. Allora gli dissi che era inutile che giocasse a pallacanestro, che se si dedicasse alla recitazione se era questo quello che voleva. Scelse la recitazione, studiò all’Accademia d’Arte Drammatica e divenne un grande attore, molto richiesto in teatro, al cinema e in tv. Una sera di tanti anni fa mi telefonò, inaspettatamente. Mi disse che mi ringraziava per averlo indirizzato a fare la scelta giusta e da allora, ad ogni Natale, mi telefona ancora.

Anche se i primi soldi cominciavano a girare, non erano solo quelli a muovere le persone.

Proprio no. Allora avevano importanza anche i valori che si trasmettevano e, da questo punto di vista, la Virtus è sempre stata impeccabile, un autentica fucina di uomini, prima ancora che di atleti. Già il fatto che fosse nata nel 1871 per volontà di Emilio Baumann, un insigne educatore, dava la cifra di cosa significasse far parte della Virtus. Entravi in un ambiente dove la prestazione atletica era solo il risultato finale di un modo di comportarsi e di confrontarsi con gli altri. Prima ancora della guerra, ricordo che per giocare dovevamo chiedere al Signor Fantazzini, il custode della Santa Lucia, il pallone: lui ce lo dava solo dopo aver finito di pulire per bene il campo con la segatura. Non era un modo per evitare un lavoro da parte sua, era l’occasione per insegnarci che le cose vanno ottenute meritandosele, che anche il divertimento comporta un sacrificio. Posso dire con certezza che questo è sempre stato uno dei valori aggiunti della Virtus.

Si può dire che l’essenza della Virtus fosse già avvertita a suoi tempi?

Ma anche prima. Tutti sapevano che era una squadra prestigiosa e quindi ambita, ma sapevano anche che lo era perché c’era sempre una correttezza di base ed una dedizione alla causa comune innate. Quando venivano scelti i giocatori, prestavamo grandissima attenzione alla persona, non solo all’atleta. Volevamo persone che avessero un modo corretto di approcciarsi e non nascondo che conducemmo anche delle piccole indagini familiari per sapere con chi avevamo a che fare: difatti i vari campioni che avevamo sul campo lo erano anche nella vita di tutti i giorni. La Virtus è sempre stata un esempio, anche a livello europeo, non ho timore a dirlo: con tutto il rispetto per le altre squadre, nessun altra ha mai rappresentato quello rappresenta la Virtus. Io sono 76 anni che sono virtussino: lo sono diventato che avevo 13 anni e da allora quegli insegnamenti non mi hanno più abbandonato. Ora invece sono tutti intenti a controllare le virgole di quello che stabiliscono i contratti, non muovono un dito se non è stato messo per iscritto che sei pagato per farlo e si rivolgono agli avvocati per tutelare i propri interessi. Se penso a quanto abbiamo lavorato e a quello che abbiamo costruito, semplicemente cercando di fare il meglio che potevamo…

Come fu uscire dalla Virtus?

Fu un’uscita ormai dovuta, dopo tanto tempo che questa esperienza mi stava coinvolgendo in maniera impegnativa. La Minganti ormai cominciava ad avere altri problemi più grossi (e difatti non tanti anni dopo fallì - nda) e l’entusiasmo iniziale ormai era sempre più difficile da rinnovare, anche se della Virtus io sono rimasto sempre innamorato e la seguo adesso come allora. Era il 1968, tutto il paese viveva un movimento particolare, con grandi stravolgimenti sociali e un clima generale era piuttosto turbolento. Era il momento di immettere forze nuove e si fece avanti Porelli.

Ci parli del grande dirigente.

Fu l’inizio di una grande amicizia. Un personaggio eccezionale, davvero il più grande dirigente che ci sia mai stato nello sport italiano, anche fuori dal basket. Pure nel tennis stava facendo grandi cose ma per via di alcune mosse politiche non gli permisero di scalare i vertici della Federazione. Meglio così, per noi della pallacanestro. Inizialmente la trattativa sembrò bloccarsi, per via di alcune divergenze tra Porelli e la Signora Minganti ma poi l’affare andò in porto. Quando avvenne il passaggio, nel 1968 la Virtus non aveva una lira di debito, a differenza di quanto ho letto scritto sui giornali qualche tempo fa. Veniva da qualche anno sportivo non particolarmente brillante ma aveva ancora un discreto patrimonio in giocatori: Lombardi, Pellanera, Zuccheri, Giomo. Con Porelli rimasi in contatto anche in seguito, benché non avessi nessun ruolo all’interno della Virtus. Andavamo spesso a mangiare fuori assieme. Aveva un carattere particolare, urlava, batteva i pugni, ti affrontava a muso duro ma le sue decisioni erano sempre le migliori. Era una forza della natura, un personaggio difficile ma di una perspicacia proverbiale e capace di raggiungere gli obiettivi come pochi. Siamo sempre rimasti in buonissimi rapporti, anche quando ultimamente ero andato a vivere lontano da Bologna. Ci sentivamo e ci incontravamo in qualche buon ristorante con le rispettive signore. Qualche mese fa mi chiese di tornare a mangiare una buona bistecca dalle mie parti, a Barberino del Mugello. Avrebbe dovuto venire anche Achille Canna ma poi non venne. Approfittando del suo viaggio, volle fare anche una capatina presso l’outlet che c’è qua vicino. Entrò in un negozio, comprò un orologio e me lo regalò. Qualche negozio dopo, entrò e comprò una borsa, che regalò a mia moglie. Era felice, anche se sapeva già da tempo del suo male. Io lo ricordo così, generoso e sorridente.

 

Virtus 1941/42: Marinelli, Zambonelli, Vannini, Calza, L. Rapini, Perella, Ce. Negroni, Garbellini (foto tratta dall'Archivio SEF Virtus)

ZAMBONELLI: "IL CLUB SAPRÀ RIALZARSI"

di Alessandro Gallo - www.ilrestodelcarlino.it - 08/05/2016

 

Il messaggio di speranza, per il futuro, arriva da quello che, a tutti gli effetti, è il virtussino di più lunga militanza. "Sono il più vecchio, diciamolo pure", spiega Raffaello Zambonelli, classe 1920. 'Lello' esordì nella Virtus nel 1936. Avrebbe giocato anche durante il periodo bellico e, nel dopoguerra, ricoprì il ruolo dipresidente in un paio di occasioni. Nell’ultima esperienza consegnò la sua creatura nelle mani di Gianluigi Porelli. "Ora vivo a Prato – racconta Zambonelli –, ma la Virtus resta nel mio cuore. Mi tesserarono nel 1935, sono trascorsi più di ottant’anni".

Da Zambonelli arriva un messaggio di speranza e una tiratina d’orecchi a quegli statunitensi che in questa stagione, non hanno compreso cosa significhi indossare una maglia bianca con una V sul petto. "Retrocedere è doloroso – prosegue –. Però ci furono momenti bui anche negli anni Cinquanta. Se non ci fossimo inventati il rapporto disponsorizzazione con la Minganti, forse la Virtus non ci sarebbe più stata. Invece è rimasta, con la sua storia e i suoi valori. Giocare e gioire per quei colori è fantastico. La Virtus è un modello, una scuola di vita, una palestra non solo per chi voglia fare sport, ma per chi intenda crescere con certi valori. Per questo rimango attaccato a quel simbolo. Per questo, al di là di qualche problemino di salute, è stato difficile digerire la sconfitta di Reggio Emilia e, più in generale, tutto il campionato".

L’allenatore al quale è più legato è Vittorio Tracuzzi, il tecnico dei due scudetti conquistati in Sala Borsa, a metà degli anni Cinquanta, con il gigante Calebotta e Alesini e l’immenso Achille Canna.

"Vincere non è mai facile – sottolinea –. Non fu semplice conquistare quei sei titoli complessivi nel dopoguerra. Non è stato facile imporsi dopo. E sarà dura, credo, anche la A2. Però con i miei 96 anni voglio guardare al futuro con ottimismo. C’è tanta gente che vuole bene alla Virtus, che prova affetto e gratitudine nei confronti di questa società. E sarà grazie all’entusiasmo generato da queste persone che la mia Virtus – ne sono sicuro – saprà rialzarsi ancora una volta. Come fece con me, negli anni Cinquanta. Come ha sempre fatto: Virtus vuol dire orgoglio e carattere".

ADDIO A RAFFAELLO ZAMBONELLI, GRANDE CUORE VIRTUSSINO

tratto da www.virtus.it - 17/11/2018

 

Se ne è andato nella notte Raffaello Zambonelli, ultimo grande testimone di una Virtus che racconta la sua grande leggenda in fotografie virato seppia. Nato nell’agosto del 1920, arrivò in Virtus da ginnasta, e si appassionò al basket con l’amico Filippo Giuli, che della V nera era un valente saltatore in alto, nel campo dell’atletica leggera. Nel 1936 iniziò la sua carriera di giocatore, in pratica interrotta dalla guerra, anche se “Lello” continuò a mettersi in gioco sui parquet bolognesi. Più in là negli anni, da dirigente della Minganti diventata sponsor della squadra (soprattutto per suo metito), rientrò in società coprendo vari ruoli dirigenziali. Ne fu presidente in due momenti, dal 1957 al 1959 e successivamente dal 1966 al 1968, quando la consegnò nelle mani dell’avvocato Gigi Porelli. Trattò personalmente gli arrivi in bianconero di talenti come Lucev, Calebotta, Canna.

Virtus Pallacanestro e Fondazione Virtus dicono addio a un grande virtussino, e sono vicine alla famiglia di Raffaello Zambonelli per questa immensa perdita.

 

 

 

IL PRIMO SPONSOR NON SI SCORDA MAI

Lo sparo che forse salvò la vita al virtussino Raffaello Zambonelli. Un incidente gli impedì di partecipare alla Campagna di Russia. Rimase a Bologna per fare grande la Virtus, anche con un contratto pubblicitario...

di Luca Muleo - Corriere dello Sport-Stadio - 21/04/2020

 

"My sweet Lorraine Said yes" cantava già Nat King Cole quando la relativa quiete di un giorno italiano in tempo di guerra veniva squarciata dallo scoppio di uno sparo. Raffaello Zambonelli, allora ventenne, si ferì accidentalmente pulendo una pistola e, senza saperlo, probabilmente si salvò la vita. Sarebbe dovuto partire per la campagna di Russia, là dove vennero inghiottite decine di migliaia di vite umane. Quel giorno cambiò il suo destino e anche la storia della Virtus, per la quale giocò nel ‘41, lui tesserato la prima volta da ragazzino nel ‘35 ai tempi di partite e allenamenti in Santa Lucia, dopo essersi ripreso e prima dell’interruzione definitiva dei campionati a causa della guerra.

PRIMO SPONSOR. Ma avrebbe contribuito a scrivere da dirigente, soprattutto negli Anni 50, la storia bianconera. Convincendo l’azienda meccanica di cui era alto dirigente, la Minganti, a essere il primo sponsor della storia del basket italiano impresso sulle canotte di lana bianca e di fatto diventarne proprietario. Una forza assoluta per un club già di primo livello, capace di vincere i primi quattro titoli del dopoguerra, a partire proprio da quello assegnato a pochi mesi dalla liberazione della città e di tutto il Paese, e poi sotto la guida dello stesso Zambonelli tornare grande a metà dei ‘50, quando lui stesso partiva per andare in Friuli a pescare Achille Canna e costruire la squadra allenata da Tracuzzi con Alesini e Calebotta vittoriosa due volte in campionato.

PORELLI. Così come fu lui a passare la società nelle mani dell’avvocato Porelli, regalandola senza una lira di debito e con contratti in essere di giocatori importanti, lanciando di fatto l’avvocato sulla strada della rivoluzione del basket bolognese, italiano ed europeo. «In casa parlava poco, era una persona molto riservata» racconta Emanuele, il più grande degli eredi di Zambonelli, «l’unica cosa che ci ha lasciato scritto era di mettergli nella bara una maglia della Virtus». Quella di Calebotta, la V con Minganti, a testimoniare un amore eterno, indistruttibile. Nella gioventù segnata dagli eventi bellici giocava con il numero 2 e faceva la guardia, «non tra i migliori, ma quanto ci teneva...». Al punto da punire con fermezza un figlio macchiatosi della più grave delle pecche. «Nel 1983 diventai presidente della Fortitudo baseball, vincendo scudetto e Coppa Campioni, per “colpa” di un amico sponsor che me lo chiese» racconta sempre Emanuele «e papà per un anno non mi rivolse la parola e mai venne a vedere una partita». Lui che se l’era portato in giro per l’Italia a tenere alto il nome delle V nere e di Bologna. «Una volta a Pesaro, ero un davvero bimbetto, sugli spalti gridai forza Virtus: dovette venire Calebotta a prendermi e salvarmi. Che rivalità che c’erano, già allora».

JOHNSON. Nel ‘57 invece Zambonelli senior diede altra prova di grande prospettiva manageriale portando in Italia Fletcher Johnson, tra i primissimi stranieri di colore a giocare in campionato, dopo un viaggio pionieristico che venne raccontato come esempio di un nuovo modo di muoversi sul mercato dei giocatori d’oltreoceano. «Quando Johnson lasciò il basket e divenne un importante cardiochirurgo a New York, mio padre finse che un disco appena uscito di Nat King Cole l’avesse scritto lui» riferendosi a un omonimo musicista. Il 29 agosto Raffaello avrebbe compiuto cent’anni, sfiorati prima di andarsene a 98 con la V nera per sempre addosso.