ACHILLE CANNA

(allenatore)

 

 

nato a: Gradisca d'Isonzo (GO)

il: 24/07/1932

Stagioni alla Virtus: vice allenatore nel 1970/71 - 1971-72

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STREGATO DALLA SALA BORSA

Arrivato da Gradisca nel 1953, è diventato uno dei miti della storia della Virtus. "Settant’anni dopo, sono ancora a Bologna. Perché qui ho vissuto la parte più intensa della mia vita. A cominciare dai giorni del Trio Galliera... Io, Alesini e Calebotta, che bella amicizia... eravamo come fratelli. Mi notò Marinelli, quando venni a giocare qui con la canotta dell’Itala. Bologna penso che abbia qualcosa che le altre città non hanno. La Città dei Canestri è nata in Sala Borsa, è stato bellissimo giocarci"
di Marco Tarozzi - Corriere dello Sport - Stadio - 07/01/2022
 
 
Achille Canna, qual è la prima immagine di Bologna che le rimase impressa?

"L’interno della Sala Borsa".

Un posto dove quelli della pallacanestro hanno fatto innamorare i bolognesi.

"Sì, ma non sto mica parlando degli anni alla Virtus. La prima volta ci arrivai da avversario. E ne rimasi impressionato".

Cosa aveva, di così speciale?

"Era un posto unico. Io giocavo in Serie A nell’Itala Gradisca, la squadra di casa mia. La Virtus era già uno squadrone, aveva vinto quattro scudetti in fila dal 1946 al 1949. Entrare in quel “campo” così atipico metteva impressione. Intanto, c’era quel pavimento fatto di piastrelle, per combinazione bianche e nere. Ti mettevano in confusione, facevi fatica a concentrarti sulle linee del campo".

Un vantaggio per chi giocava in casa.

"E infatti me ne resi conto quando diventai virtussino anch'io. Chi c’era abituato, prendeva le misure, gli altri si smarrivano. E poi c’era il pubblico...".

Scatenato?

"Una forza aggiunta. Avevi il parterre a pochi centimetri dal perimetro di gioco, e poi c’erano quelli del... loggione. Al piano di sopra, i tifosi si affacciavano sporgendosi dalle ringhiere, e battevano ritmicamente sui pannelli in ferro delle pubblicità. Un inferno. Se eri un avversario, sprofondavi nell’angoscia. Se giocavi per loro, ti caricavi a mille".

Alla Virtus lei approdò nel 1953. Stava nascendo un nuovo gruppo vincente, che infatti fu poi campione d’Italia nel 1955 e nel 1956.

"Mi fa pensare che sono passati quasi settant’anni. Ero un ragazzo pieno di speranze, ma anche di domande sul futuro. Pensavo che sarebbe stata una parentesi, e invece da Bologna non me ne sono andato mai più".

Come fu che prese la strada di Bologna?

"Mi notò Marinelli, quando venni a giocare qui con la canotta dell’Itala. Ero un “furlàn” che usciva dalla sua terra soltanto grazie alla pallacanestro. A Bologna venivamo in taxi, un lusso, perché c’era un tifoso che faceva il tassista e ci organizzava la trasferta. Andavamo a mangiare al “Faggiano”, in via Calcavinazzi, facevamo anche una pennichella e poi c’era solo da attraversare via Rizzoli per entrare in sala Borsa". E lì, appunto, Marinelli stava con le antenne alzate... "Lui si appuntò il mio nome. Allora l’ambizione di tutti era quella di trovare un posto di lavoro che permettesse di dedicarsi allo sport con tranquillità, più in là non si andava. E qui a Bologna mi offrirono anche quello, facevo l’elettricista nei cantieri edili. Mi alzavo alle sette, smettevo di lavorare alle sette e mezza di sera e poi andavo ad allenarmi".

Sport e lavoro, poco altro. Anni duri, di crescita.

"Ma comunque bellissimi. Amavo la pallacanestro e giocavo nella Virtus, un sogno perché chiunque praticasse questa disciplina sperava di trovare spazio a Bologna o a Milano, che ne erano le capitali. Era un basket di altissimo livello, ma chiaramente le situazioni economiche erano ben diverse. Quando a sponsorizzare la Virtus arrivò la Minganti trovai lavoro lì, e ci rimasi per circa cinque anni".

Fu così che la Bologna dei canestri imparò a conoscere il Trio Galliera.

"Io, Alesini e Calebotta, che bella amicizia... abitavamo in via Galliera, in un pensionato. Noi tre legammo subito, e diventammo come fratelli. È stata un’amicizia profonda, intensa. Fuori dal campo eravamo inseparabili, e per questo diventammo il Trio. In campo ci conoscevamo a memoria, giocavamo insieme anche in Nazionale: leggevamo uno negli occhi dell’altro, se uno dei tre incappava in una giornata storta gli altri due lo capivano al volo e lo sostenevano".

Lei è uno di quelli che hanno traghettato il basket bolognese dalla Sala Borsa al Palasport.

"Che emozione, le prime volte che entrammo nel palazzo nuovo. Era davvero qualcosa di imponente, il più bell’impianto italiano. E ancora oggi ha un fascino che lo mantiene moderno. L’epoca della Sala Borsa è finita lì, e del resto era improponibile continuare a giocare lì, con gli appassionati che crescevano di anno in anno. Ma è stato bellissimo, in quel palazzo “anomalo” hanno giocato Virtus, Gira, Oare, Moto Morini, Sant’Agostino... la Città dei Canestri è nata lì"».

Anche lei, in fondo a una carriera virtussina lunga nove stagioni, ha indossato altri colori.

"Chiusi dopo le Olimpiadi, in panchina c’era Kucharski e la società non aveva più bisogno di me. Avevo già appeso le scarpette al chiodo, quando mi chiamarono al Gira, dove giocai dal 1962 al 1964. Poi mi cercò Forni, presidente dell’Alcisa e patron della Sant’Agostino che a fine stagione 1964-65 doveva giocare le partite decisive per la promozione in A. Giocai quelle, prima di chiudere definitivamente".

Per poi tornare alla V nera, da dirigente.

"Ho fatto il vice di Tracuzzi, negli anni di Porelli anche il presidente tra il 1979 e il 1983, il direttore sportivo dal 1983 al 1998 vivendo altri anni di successi indimenticabili, comprese le prime vittorie europee, Coppa delle Coppe nel 1990 e Eurolega nel 1998. Non posso pensare alla Virtus come a qualcosa di estraneo o parallelo alla mia vita: ne è parte fondamentale".

Sinceramente: perché Achille Canna non è più tornato nella sua Gradisca, scegliendo Bologna? Solo questione di “sliding doors”, o c’è altro?

"A Bologna mi sono sposato, e quando ho chiuso con lo sport mi sono messo a lavorare con mio cognato. E fin qui, c’è la parte più razionale del mio diventare a tutti gli effetti bolognese. Ma in realtà c’è altro: questa città mi ha affascinato da subito, appena ci ho messo piede. Ai tempi del Trio, ci sentivamo padroni del centro, dopo i due scudetti la gente ti fermava per strada, ti riconosceva, si metteva a parlare con te di basket e di vita. Un salotto a cielo aperto. Bologna ha qualcosa che le altre città non hanno, e io me ne sono innamorato. Da quasi settant’anni".