KRESIMIR COSIC

(Krešimir Ćosić)

(allenatore)

Cosic e Brunamonti seguono con apprensione le fasi di una partita

nato a: Zagabria (Jugoslavia - Croazia)

il: 26/11/1948 - 25/05/1995

Allenatore per la stagione 1987/88

statistiche individuali del sito di Legabasket

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'NON SOLO AMERICA'

di Walter Fuochi – La Repubblica – 11/09/1987

 

"Io prima guarda, poi parla", dice Kresimir Cosic, e lo ripete da più d'un mese, pazientemente: da quando è arrivato a Bologna per allenare la Dietor. O meglio, è tornato a Bologna. Nella Virtus ci giocò due stagioni, '78-'79 e '79-'80. Furono due scudetti, vinti da quel pivot jugoslavo gracile, quasi snodabile, che però dirigeva i compagni come un playmaker, 211 centimetri geniali e indecifrabili, per gli avversari, in ogni angolo del campo. Cosic prima guarda e poi parla perché conosce Bologna: i suoi abbandoni entusiastici a sentirsi migliore di tutte, quando vince; i suoi cinismi derisori, quando le cose girano male. Ha trovato aria bassa: la Dietor delle due deludenti stagioni di Gamba, la "piazza" contro l'allenatore, la squadra a metà di un sofferto guado tecnico, sfibrata nel morale, malata di paura di sbagliare.

Cosic non è una sorpresa. Era chiaro che prima o poi sarebbe tornato da coach. Lo dissero subito, a Bologna, il giorno stesso che si congedò da pivot. Troppo basket in testa per spremerlo tutto in campo. Così, attraversate panchine del suo paese, ultima quella della bizzosa nazionale jugoslava, "Creso" non è mancato al suo appuntamento. Si può nascere a Zara, nel cuore del triangolo d'oro della pallacanestro slava "ruspante", svelarsi come raro talento e imparare il resto del basket alla Brigham Young University, nello Utah, stato dei mormoni. E portare via di là, assieme ai "fondamentali" per fare canestro, anche una fede tuttora coltivata: così ha fatto Cosic, che è mormone, è stato vescovo di questa confessione e quel soprannome, non il ruolo liturgico, ha sempre conservato, in campo e in panchina. Il "Vescovo", appunto.

Fu una bellissima esperienza, la Brigham Young. Nella vita dello studente al college si riassumeva, e forse è così ancora adesso, il ritratto migliore dell'America: piacevole, libera, altruista. Cosa imparai, nel basket? Che contava soprattutto fare canestro, non il modo in cui ci riuscivi. È quello che ho ripetuto sempre, poi, ai miei giocatori.

Ma non è stata una dipendenza "culturale" esagerata, quella del basket italiano che ha da sempre gli occhi fissati sugli Stati Uniti, mentre in Europa fioriva un modello jugoslavo così spontaneo ed efficace?

Per crescere è stato utile guardare gli americani, ma bisogna sempre tener presente che il basket internazionale è diverso da quello degli States. Loro fanno un gioco solo per americani. Che è cambiato, a sua volta, da quando sono entrati in forze i neri, mentre negli anni Cinquanta era uno sport soprattutto per bianchi. Poi là ci sono Nba ed high school. Due mondi diversi.

In Europa un solo basket. E un ragazzo jugoslavo che a tredici anni è uguale a uno italiano, e a diciotto lo travolge, deve tutto, davvero, all'"università del cortile", dove rifà le stesse cose per ore e ore?

Allenarsi da soli è importante, migliora certe qualità tecniche: e infatti in Jugoslavia continuano a venir fuori guardie fortissime. Perché la guardia prende la palla e fa. Come Drazen Petrovic, grande talento, che a 16 anni giocava in A a Sebenico. Ma in Jugoslavia non vedevano, da dieci anni, un pivot nuovo. E non emergeva un'ala brava come Dalipagic, ma un po' più giovane di "Praja". I lunghi erano gli stessi che giocavano con me: Zizic, Radovanovic, Knego. Dietro, il vuoto. Io, nella mia Nazionale, ho messo dentro quattro giocatori nuovi. E tutti a far polemiche, perché avevo spostato degli equilibri, anche politici e dei club. Ma adesso, in Jugoslavia, hanno una Nazionale con un futuro, una squadra sulla quale si può costruire, non conservare.

Il tiro da tre punti piace a Cosic. In allenamento fa eseguire a tutti i suoi centinaia di tiri. Si aspetta molto da Villalta, e perfino a Stokes, canguro dei rimbalzi, chiederà tiri da sette metri.

Non è che io veda solo i tre punti. Ma quel tiro c’è, bisogna saperlo usare. La mia Dietor non è una squadra di tiratori, ma dovrà diventarlo. So che a Bologna conta solo vincere. E che vengono da un periodo magro. Noi ci proveremo, soprattutto a vincere le partite che diventano dure, o quelle fuori casa, "proibite" a un certo punto dell'anno scorso. Ho visto molti filmati, la squadra calava, perdeva sicurezza, e magari vedeva anche che Brunamonti pompava e pompava il pallone senza trovare soluzioni, e finiva le partite con la lingua fuori, perché non aveva cambi. Le prove vere, per noi, verranno di fronte a questi problemi. Siamo cambiati molto, è vero. E può darsi che chi ieri era un pilastro, oggi dovrà imparare ad essere solo un pezzo di questa squadra. Ma un pezzo utile, importante. Il traffico ci sarà, ma serviranno tutti, non mi preoccupo. Ora poi, partendo senza Binelli, che è infortunato e ci sarà da metà ottobre, siamo anche ridotti. Ecco, da Binelli mi aspetto molto: oggi è una grande promessa, non ancora un grande giocatore. Deve imparare a non farsi spostare nelle partite dure e diventare un vero rimbalzista. Prima i rimbalzi, poi il resto. Dovremo avere la certezza che lui ci darà, ogni partita, 10-15 rimbalzi. L' ultima cosa la chiedo a tutta la squadra. Vincere, qualche volta, anche giocando male. Non preoccuparsi, sapere che miglioreremo: ma intanto vincere. Come la Tracer, esatto. E invece, a Bologna, so che spesso va a rovescio. Ne perdi una e tutti a dire: è finita, il giocattolo s'è rotto, non c'è più niente da fare. Sono qui anche per non sentirci, dopo qualche inevitabile sconfitta, troppo vicini a questa fine del mondo.

Congedato Sandro Gamba, tornato alla guida della Nazionale, e assunto Kresimir Cosic, tecnico della rappresentativa jugoslava, la Dietor ha operato un rinnovamento di quadri che va oltre i nomi. Aveva sempre puntato su acquisti giovani, quest' estate ha ingaggiato Sylvester (36 anni) e Allen (35) per sopperire ai limiti di esperienza emersi nella parte finale dell' ultimo campionato. Sei uomini sono confermati, Sylvester sostituirà nel ruolo di guardia Byrnes, ma dovrà anche surrogare Brunamonti in regia, più del giovane Marcheselli, promosso dalla formazione juniores assieme a Cappelli. Il pivot Floyd Allen, per ora, fa la parte anche di Binelli, operato al ginocchio, pronto al rientro a metà ottobre.

 

Cosic e Villalta protestano, Sulla sinistra Marcheselli e, più dietro, Fantin

BRUNAMONTI DESCRIVE COSIC COME ALLENATORE

tratta dal libro “Brunamonti” di R. Gotta, ed. Libri di Sport, 1996


 
Creso Cosic, per me, è stata una persona importantissima. Come allenatore qui non ha avuto grande successo, visto che la sua stagione, la 1987-88, è stata molto brutta per la Virtus e tutti preferiscono ricordarlo come giocatore. Io con lui non ho giocato, non posso dirti. Ma come coach è stato quello che mi ha dato le maggiori responsabilità: il suo modo di far giocare la squadra aveva un grande impatto per chi doveva gestire il pallone. Oh, io avevo già 27-28 anni, ero pedina importante, titolare in serie A da un decennio, ma lui mi dette sicurezza, senza conferirmi pubblicamente gradi o ruoli superiori a prima. Non era questione di schemi ma di atteggiamento mentale, questo mi fece compiere un passo in avanti e non è che fosse facile, in fondo avevo alle spalle due Olimpiadi giocate. Però Creso ti faceva sentire responsabile di te stesso e degli altri anche quando le cose non andavano bene, ti dava la possibilità di uscirne da solo. Con lui mi sono completato ancora di più anche dal punto di vista psicologico, fermo restando che fu una stagione difficile e che io non stavo benissimo per via dei problemi di schiena che mi hanno poi costretto ad operarmi subito dopo. Io ho avuto la fortuna di essere spesso nel posto giusto e nel ruolo giusto, Cosic invece capitò qui in uno dei momenti peggiori per la Virtus: c'era anche qualche problema interno, ma lui cercò di non farsi condizionare.

Problema interno. Interessante. Brunamonti non può fermarsi qui, anche se come sempre neppure sotto la minaccia di una frusta parcheggia la macchina oltre le strisce dell'understatement, del sottile non detto.

Problema interno nel senso che Cosic aveva un modo molto particolare, non tradizionale, di gestire il gruppo. Era molto immediato, diretto, nel bene e nel male, diceva le cose senza mezzi termini. Non so se era perché non parlava benissimo l'italiano, ma veniva fuori molto schietto, e qualcuno se la prendeva, specialmente tra quelli non più giovanissimi. Faceva così anche con me, intendiamoci, però io sentivo fiducia. Faccio un esempio: giochiamo a Cantù, e ci massacrano. Dopo la partita Creso viene da me con il foglio delle statistiche e mi dice "perché non hai tirato di più? Ci prendevi, avevi sei su sette". Io gli dico che il mio compito principale è far giocare la squadra, e lui "ma se ci prendi non devi esitare". Bene: una settimana dopo giochiamo a Livorno, perdiamo di uno e io tiro tredici volte, segnando un solo canestro. Mi preparo per il rimprovero, e lui "bravo, hai dimostrato che sai prenderti delle responsabilità". Come dire, l'importante è sentirsi sicuri. A fine anno andò via, l'eliminazione da parte della Fortitudo aveva lasciato una traccia. Io lo vidi quando mi venne a trovare in ospedale, capii che sapeva di dover andare via e infatti la società dopo un po' annunciò l'arrivo di Bob Hill. In seguito ho continuato a sentirlo: andò all'AEK Atene, mi ricordo che mi parlava di un bravo playmaker, tale Patavoukas... Quando ha intrapreso la carriera diplomatica, lavorando all'ambasciata croata a Washington, sentivo che il basket gli mancava molto, anche se aveva molti interessi. E adesso è lui che manca a noi.

 

Cosic catechizza Stokes (foto fornita da Meris Zamboni)

COSIC CONTRO VIRTUS, NON SOLO PER I SOLDI: "SE AVESSI AVUTO SUGAR..."

di Walter Fuochi - La Repubblica - 17/03/1998
 

ATENE - Kresimir Cosic, adesso, abita qui. C'è venuto per un anno, senza famiglia, ad allenare (a titolo gratuito, dice lui, "tanto per non uscire dal giro") l'Aek, club un tempo glorioso, ora squattrinato, dopo promesse e bidoni del solito miliardario fanfarone. Dall’Aek, una settimana fa, è scappato (verso Arese) l'americano Vranes: perché appunto non giravano i quattrini. Cosic si arrangia come può, fra una squadra abbacchiata e una società di carta: sabato ha battuto a Salonicco il forte Paok, domani ospiterà l’Aris. L’altra sera seguiva in tribuna Real Madrid-Caserta, finale di Coppa: pensando forse che il basket italiano, toccato prima da giocatore vincente (due scudetti), poi da coach perdente (l'anno scorso, sempre a Bologna) è proprio un'altra cosa. In questa lunga intervista-confessione, Cosic torna sulla sua contrastata avventura in panchina, culminata nella lite con la Virtus per il contratto (anche se entrambe le parti ammettono ora di ricercare un'intesa). Porelli dice di non voler fare polemica sui giornali, Cosic ha speso invece tante parole. Pesanti come pietre, opinabili, naturalmente parziali. Un anno dopo, ecco la verità: secondo Creso.

La Virtus deve pagarmi un anno di stipendio. Avevo un contratto biennale, ho sempre fatto il mio dovere e quei soldi mi spettano, anche se la società decise di mandarmi via dopo il primo. Ho messo la cosa in mano agli avvocati, posso discutere una transazione, ma intendo andare fino in fondo. Non ce l'ho con Porelli, di lui ho stima immutata. Lui fa il suo lavoro, io il mio: non ci siamo più sentiti, dall’altra estate, ma non conta. Di Bologna ho ottimi ricordi. La Virtus aveva un'organizzazione perfetta, grandi mezzi, una palestra propria. Qui non sai la mattina dove ti allenerai la sera: e ad Atene uno come Marcheselli non verrebbe mai fuori. In Italia tornerei: in una società con programmi ambiziosi, da scudetto. A 40 anni cerco stimoli veri. Poi, da vecchio, puoi anche pensare solo ai soldi: vai d'accordo con tutti, basta far finta di lavorare...

A Bologna Cosic non andava d'accordo con tutti. Aveva contro mezza squadra, la società l'aveva sconfessato ben prima dei due derby dell'epilogo brutale.

Mi proposero un accomodamento sul contratto, dissi che mi stava bene, poi non se ne fece più niente. Mi hanno rimproverato che la squadra non era unita, che da fuori si vedevano cattivi comportamenti. Io cercavo di farla vincere, quella squadra, e posso dire che non tutti remavano in quella direzione. Ho fatto il mio dovere, non ho gradito gli insulti al mio lavoro, voglio rispetto, e naturalmente i miei soldi. Non chiesi io di venire a Bologna. Ero il coach della nazionale jugoslava che dava 30 punti all'Italia, la squadra che tutti ammirano, oggi, dimenticando che Kukoc, Radja, Divac, io li imposi contro tutti. Decidendo da solo, prendendomi responsabilità da capo-allenatore. Come alla Virtus non mi hanno lasciato fare.

Quando arrivai, il mio contratto stabiliva che avrei allenato la squadra fatta dalla società, potendo proporre, ma non imporre, il cambio di un americano. Contro i due pivot stranieri mi pronunciai subito: avrei preferito un lungo italiano (un tipo come Generali, per capirci) e una guardia americana. Ma presi la squadra com’era, la portai al 2° posto, finché Porelli, dopo Firenze, mi disse: puoi cambiare, scegli chi vuoi. C’erano Conner Henry o Kyle Macy. Venne Macy, la squadra giocò partite buonissime, cresceva, quando si ruppe Brunamonti. Senza Roby, non ci fu più niente da fare: i suoi punti avrebbe dovuto farli uno dei lunghi. Speranza inutile. Ma questa squadra completa era da scudetto.


Volevo solo poter allenare a modo mio. Non do colpe a Porelli, lui fece la squadra che gli avevano consigliato. Ricordate quando Gamba dichiarò: "Ecco la Virtus che avrei voluto allenare io"? A lui stava bene a me meno, ma sono punti di vista. Dovevo però lavorarci io. Io dico questo: gli spaghetti puoi cucinarli alla bolognese o alla milanese, sono buoni entrambi. Ma non mischiarli: fanno schifo. A Bologna abbiamo vinto due scudetti quando se ne andò Peterson e venne Driscoll. Alla bolognese. Milano è una grande squadra ma è inutile copiarla. Io dicevo: cuciniamo alla bolognese ma loro mi aggiungevano sempre ragù milanese.

Bene, di cosa può rimproverarmi la Virtus, visto che non le ho fatto spendere una lira? Che ho "fatto" Marcheselli che oggi vale mezzo miliardo; che secondo loro Villalta era finito e con me ha fatto un grande campionato; che Brunamonti ha giocato la sua miglior stagione? Porelli dice che ha testimoni contro di me: Messina, Canna, Sylvester. Non m’interessa, ho la coscienza a posto. Coi giocatori il rapporto era normale, non conosco squadre senza problemi, perché solo giocando con 5 palloni i problemi sparirebbero. Certo, in spogliatoio dicevo le cose in faccia, e non agli juniores: cose anche dure, che gli interessati non potrebbero raccontare fuori senza vergognarsi. Il mio staff lavorava contro di me. Ho le prove: due lettere, una mia, e una loro risposta. Non so se volevano vincere. Io sì. E anche Porelli: sennò non mi avrebbe preso Macy. Del resto, quel che pensavo delle squadra glielo dissi subito. Che ci voleva la Vespa per fare il contropiede. Che c’era poca voglia di correre in allenamento. Che i due americani erano mediocri. E poi, se la Virtus era tanto buona e le colpe solo mie, perché l’hanno cambiata tutta, a cominciare dagli stranieri, due super che io nemmeno sognavo? Ma intanto la Knorr di quest’anno, più forte della mia, sta andando peggio. Di Floyd Allen e Greg Stokes ho detto: con gente mediocre puoi lavorare 6 mesi e combinare meno che avendo McAdoo e Richardson e stando quei mesi in vacanza. Villalta e Brunamonti m’hanno dato tanto, anche più di quel che m’aspettassi. A Roby dissi di non accontentarsi di 10 punti a partita, lui può essere una macchina da canestri. E poi è onesto, ha accettato senza fiatare anche i miei rimproveri sbagliati, parole che mi sarei rimangiato. Macy era l’uomo giusto se non perdevamo Brunamonti. Fantin e Sbaragli hanno fatto il loro dovere, soffrendo anche per i molti cambi. Sylvester. Lui aveva il suo modo di lavorare, lontano dal mio, ma non mi sembra che a Hill, col quale va d’accordo, stia dando più di quel che diede a me. Come dovevo farlo giocare, Sylvester? Non è play, né guardia, né ala. Non fu Porelli a volerlo, ma Gamba dopo che a Rimini una squadra arrivata sesta un anno prima, con lui e due buoni americani finì in A2. Se per Gamba era così importante, perché non l'ha portato in Nazionale? "Sto male qui, sto male là", diceva sempre: all'inizio giocò bene, poi non voleva lavorare duro in allenamento. Lo so che è fatica, anch’io farei una seduta anziché due, e so che un giocatore anziano, se lo fai venire a correre alle 10 di mattina, brontola. Brontolassero pure, io non sentivo, mi bastava che corressero. Binelli. Era e rimane un enigma, anche perché i guai fisici lo tormentano sempre. Deve imparare a fare bene due cose: difesa e rimbalzi. Il resto, l'attacco, viene da solo: e il giorno che non viene, tiri meno, ti adegui, ma su difesa e rimbalzi fai la tua parte. Io invece non sapevo mai, prima di una partita, cosa mi avrebbe dato Binelli. Eppure sono stato pivot anch'io, in Jugoslavia avevo lavorato bene con tre pivot giovani. Ma lui è un enigma.

Bologna mi ha dato molto: soprattutto il piacere di lavorare in una società ben strutturata. La Virtus è una grande macchina, ha pure un'ottima base giovanile, anche se, nella squadra juniores, c'è molta schiuma e poca birra. Non lavorano per fabbricare il campione, ma risultati immediati. Corradini ha talento, ma io l'avrei inserito quest'anno: fra due stagioni sarebbe da A. E Conti deve giocare: non ci sono molti ragazzi jugoslavi più forti di lui, alla sua età. Le delusioni sono state due. La prima: che si poteva fare di più per vincere: una squadra più buona negli americani, magari con Righi nel ruolo di uno dei due, come rincalzo, pensando poi che ora, al suo posto, hanno speso un miliardo per Gallinari. La seconda: che da capo-allenatore, da responsabile, dovevo decidere io e gli altri fare quel che dicevo io. Invece, non andava mai così.