TERRY DRISCOLL

(Edward Cuthbert Driscoll)

(allenatore)

Driscoll durante un time out

nato a: Winthrop, Mass. (USA)

il: 28/08/1947

come allenatore: 1978/79 - 1979/80

palmares individuale in Virtus: 2 scudetti

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Tratto da "Virtus - Cinquant'anni di basket" di Tullio Lauro

 

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È del tutto naturale, quindi, che quando il rapporto tra la Virtus e Dan Peterson si interrompe, e il coach americano prende la strada di Milano, l'avvocato Porelli offra la panchina all'ex pivot che oramai doveva, per colpa delle sue condizioni fisiche, lasciare il campo. "Porelli mi chiama" racconterà più tardi Terry Driscoll "mi dice che Peterson se ne andrà e senza tante storie mi chiede di allenare la squadra. Io prendo tempo e per una settimana intera non solo parlo con mia moglie, ma parlo più volte anche con Porelli per esporgli tutti i miei problemi. Poi realizzo che può essere un'esperienza molto stimolante e accetto". Al fianco di Driscoll c'è Ettore Zuccheri "Ettore è per me un collaboratore ideale" dirà il bostoniano " lui conosce molto meglio di me come si guida una squadra, sarà molto di più di una spalla. Ho accettato proprio perché c'era uno come lui, lo giuro. Alla fine le decisioni le prendo io, ma ci consultiamo continuamente; anche in panchina ci scambiamo tante opinioni. Il rapporto umano va al di là delle gerarchie, è un rapporto di stima e di collaborazione. Ettore sa come si conduce un allenamento, io sto imparando".

 

L’INTERVISTA DEL MESE: TERRY DRISCOLL

di Bruno Bogarelli - Giganti del Basket - giugno 1980

 

Sai, quando era un ragazzo e mi invitavano alle feste, non volevo mai che finissero, quando però la gente andava via, accettavo che le cose andassero come dovevano andare e mi mettevo in fila per uscire.

Chi parla è Terry Driscoll, l’uomo che in cinque anni di permanenza a Bologna ha vinto tre scudetti facendo sognare il pubblico del basket per quello che riusciva a fare in campo, spaccandolo in due nel giudicarlo per cosa faceva in panchina.

La “festa” bolognese di Terry Driscoll finisce, come tutte le feste, anche se l’invitato di Boston si è aggiudicato tutti i premi della serata, come il principe delle favole. Terry il fisico del principe ce l’ha e questo, insieme alla grande stima per l’uomo e il giocatore, è uno dei motivi per cui l’avvocati Porelli mandò a quel paese tutti i coach italiani che volevano monopolizzare la panchina bianconera e, su quella panchina, ci mise di forza i due metri e due del trentunenne Terry.

Da quel momento alla dine della festa sono passati due anni, giorno più giorno meno, la Virtus è campione d’Italia per il secondo anno di seguito e Terry Driscoll si è accorto che il mondo non è fatto solo di gente che gli vuole bene e che il mestiere dell’allenatore riserva, soprattutto nel nostro paese, esperienze che non avevano mai neppure sfiorato la sua vita di giocatore dalle grandi gioie.

Ormai non sono più un ragazzo, questo me lo devo mettere in testa; torno nel mio paese con una grande esperienza che mi aiuterà ad affrontare meglio una nuova vita, una vita certamente più dura, una vita da uomo.

Da queste parole si capisce che ormai è in atto in Driscoll quel processo di maturazione che, al di là dei risultati, gli sarebbe servito a convincere chi lo aveva messo alla prova; purtroppo si è innescato a capitolo ormai chiuso, a convinzioni reciproche già radicate. A lui resterà la convinzione che è valsa la pena di rinunciare ad un ingaggio di 60.000 dollari più i premi per non restare in un ambiente che, dopo avergli dato tutto sul piano umano, glielo stava rosicchiando in silenzio, quasi sena rendersene conto. All’avvocato Porelli resterà la convinzione che l’offerta economica, eccezionale per l’entità fosse tutto quello che la Virtus aveva da offrire al “bostoniano” per dimostrargli la sua gratitudine e confermargli la sua fiducia: il tempo della componente emotiva, del qualcosa in più che fosse in dollari, ha fatto la sua storia, appartiene al passato. Bologna non piange la partenza di Terry. L’uomo che questa città ha amato più di ogni altro come giocatore non è però riuscito a convincerla in abiti borghesi. I due scudetti vinti dalla panchina non sono serviti a molto, restano solo un dato di fatto utile, semmai, a farlo rimpiangere.

Pensi di avere molti amici?

No, non credo molti, anche perché ho l’abitudine di dare molto peso a questa parola, per cui i miei amici si contano per unità, non a decine.

C'è qualcuno che ricordi particolarmente?

Nella carriera di giocatore uno su tutti, è Miky Davis, panchinaro sfigato come me a Milwaukee e, sai, in queste situazioni le amicizie si cementano, come dire: facciamoci forza nella sorte che ci accomuna. Comunque abbiamo passato due anni dividendo tutto. Mi ricordo che Larry Costello, il nostro allenatore, era un maniaco della teoria e ci dava continuamente dei compiti veri e propri da svolgere. Io e Miky eravamo i più bravi, i più preparati e a noi spettavano sempre i voti più alti. Seguendo le teorie di Costello sarebbe toccato a noi entrare in campo, invece lì continuavano ad andarci i neri che restituivano compiti tali da non trovare voti sufficientemente bassi per essere qualificati, ma che in compenso facevano sempre paniere. Questo però non ci ha mai guastato l'esistenza, con Miky ho passato un periodo indimenticabile.

E a Bologna credi di lasciare amici?

Certamente, anche a Bologna. Ho trovato gente che è stata molto vicina a me e mia moglie, non un gruppo molto vasto, ma sufficiente per farci sentire a casa nostra in tutti questi anni. Comunque tra queste amicizie ce n’è una che fa storia a sé, è un legame che dura da dieci anni, fin dal mio primo arrivo in Italia. Allora infatti iniziò la mia amicizia con Umberto Pepoli, l'ex segretario della Virtus. A qualcuno questo apparirà molto strano, quasi incomprensibile che un “bostoniano con la puzza sotto il naso” come qualcuno mi ha definito, stringa amicizia con un “duro” come Umberto, uno che guarda principalmente alla sostanza delle cose e per il quale la forma ha un valore puramente marginale. Strano, ma vero. Per cui o io non sono un “bostoniano” o Pepoli non è un “duro”: scegliete voi. Scherzi a parte, resta la mia amicizia con Umberto che non si misura a telefonate o a uscite a cena con la moglie, anzi, non si misura proprio: c'è e basta.

Quella del “bostoniano” non l'hai digerita, ha lasciato il segno.

Non certo per la definizione in sé stessa, diciamo per il modo approssimativo con cui è stata concepita, la superficialità con cui si è cercato di attaccarmi un'etichetta.

Pensi di aver subito dei torti?

Il torto e la ragione nascono dai fatti, e se guardiamo i fatti ho ragione io: ho vinto due scudetti. A parte questo sono convinto di essere stato spesso frainteso, di essermi spiegato male e pertanto quelli che tu chiami torti è più corretto definirli cattive interpretazioni.

Nessun giocatore è stato amato a Bologna come lo sei stato tu. Appena hai messo i panni dell'allenatore questo amore è calato sensibilmente, in qualcuno dei tuoi ammiratori addirittura scomparso per tramutarsi in sfiducia. Quanto ti ha pesato tutto ciò?

Non molto. Non mi ero accorto di essere così amato quando ero giocatore e neppure mi sono accorto di essere amato meno quando sono diventato allenatore.

E i giornalisti? La stampa ti ha riservato qualche critica severa, apprezzamenti pesanti sulle tue capacità nel guidare la squadra dalla panchina.

Io non ero a piena conoscenza di quello che succedeva fuori dalla società e pertanto le critiche, anche se ci sono state, mi hanno toccato relativamente. Certo se uno parla male di me mi dispiace ma non posso farci niente, lo devo accettare.

È vero che hai chiesto 70.000 dollari per continuare a sedere sulla panchina della Sinudyne?

Avevo fatto i miei conti. Tenendo presente un sacco di cose, avevo fatto dei calcoli veri e propri, e non solo matematici, raggiungendo la convinzione che quella era la cifra giusta da chiedere. Probabilmente resterò famoso come colui che ha rifiutato 60.000 dollari per allenare la Virtus, questa è in effetti la cifra che mi ha offerto Porelli, ma ero convinto di doverne chiedere settanta.

Viene da pensare che tu abbia chiesto quella cifra con vinto che non ti sarebbe mai stata data o che, comunque, anche in caso di risposta affermativa, rappresentasse l'unico modo per farti restare in Italia.

Questo non è giusto. Io avevo tutti gli interessi pratici a restare in Italia almeno un altro anno ed ero convinto che la Virtus mi volesse ancora, per cui ho chiesto quello che obiettivamente mi sembrava giusto chiedere in base ai risultati ottenuti e agli impegni cui mi avrebbe chiamato la prossima stagione. è ovvio che per fare questa richiesta mi sono basato su quanto prendevo già precedentemente, non sul compenso medio di un allenatore italiano.

Credevi che con Porelli sarebbe finita così?

Ti ho già fatto il discorso della festa che prima o poi finisce. Porelli ha fatto quello che doveva fare, nessuno dei due si aspettava che la cosa dovesse finire in questo o in quell'altro modo. Se è finita è perché doveva finire, altrimenti si sarebbe trovato il modo di farla andare avanti.

Sei veramente così cinico o lo vuoi apparire?

Non è questione di essere cinici, è questione di dare un'interpretazione realistica alle cose. Io conosco bene Porelli e so, per esperienza personale, che quando vuole ottenere qualcosa ci riesce. Non voglio dire con questo che gli sarebbe bastato aprire un po' i cordoni della borsa, sono altre cose di cui parlo ma che mi è difficile spiegare. I diecimila o i mille dollari, in certi frangenti assumono un significato cento volte maggiore o addirittura lo perdono completamente, dipende dal modo con cui la proposta ti viene fatta. Comunque non voglio insistere su questa faccenda; se ho dichiarato che non era una questione puramente economica è perché in effetti vi sono altri fattori altrettanto o più determinanti, anche se non è facile raccoglierli, neppure da parte dei diretti interessati.

Eppure Porelli fu capace di farti dire di no ad un contratto triennale di 175mila dollari offertoti dai Detroit Pistons portandoti a Bologna, nel '69, e di farti rinunciare ai Boston Celtics nel '75, sempre per averti con lui.

Questo è vero, evidentemente le cose sono cambiate da allora e non si può farmene una colpa se me ne sono accorto.

Qualcuno dice che sei rimasto stupito dal fatto che Cosic non fosse il tuo successore, uno stupore che nasceva da convinzioni già maturate in precedenza, addirittura da complessi creatisi in te nei confronti del campione slavo.

Cosic è veramente un campione e come tutti i grandi campioni può togliere e dare moltissimo al suo allenatore nel compimento di una sola azione, pronunciando una sola frase. Queste sono cose che vanno accettate, altrimenti si rinuncia ad avere certi personaggi. In me non si è generato nessun complesso, ho accettato Cosic come era sapendo che non poteva essere cambiato, limitandomi a cercare di ottenere da lui il massimo di quanto poteva dare. E poi Creso è uno di quei personaggi che si fa perdonare qualsiasi cosa, cui non puoi serbare rancore in nessun modo, neppure quando riesce a dartene tutti i motivi.

E Caglieris? Come hai preso e come pensi che abbia preso lui l'esclusione dalla Nazionale?

Gamba doveva fare delle scelte e le ha fatte secondo i suoi criteri e le sue esigenze, quindi non ho nulla da dire. Neppure per l'esclusione di Carraro penso si possa prendere una posizione precisa prima che i fatti chiariscano le cose. Per quanto riguarda Charlie, non credo che sia morto dal dolore per l'esclusione dal gruppo dei dodici che ha partecipato al torneo preolimpico. Questo forse stupisce un po', ma Charlie è un giocatore particolare, uno che ha bisogno di continue sollecitazioni e motivazioni che non sempre ottengono poi l'effetto voluto. Le parole che da altri ti fanno ottenere tutto o quasi, con lui spesso si sciolgono come la neve al sole, all'impatto perdono tutta quella capacità d'urto che tu eri convinto avessero. Quando facevamo gli allenamenti dividevamo i quintetti con maglie rosse e bianche, dando a quello che in teoria doveva essere il quintetto più forte, il quintetto base, la maglia rossa. Ebbene quando Charlie metteva la maglia rossa (quasi sempre, di norma) perdeva la concentrazione e tendeva a fare il minimo indispensabile, quando viceversa lo schieravo con i cosiddetti rincalzi, riusciva a fare tutto quello che ti aspetteresti da un grande playmaker. Io ho parlato con lui di questo, lui se ne rendeva conto, ma poi di fatto le cose continuavano ad andare come prima. Quindi non so cosa dire. Di certo Charlie sente molto la responsabilità quando è lui che decide di prendersela. Bisogna vedere se questo sarebbe accaduto anche per la Nazionale e in questo particolare momento.

Cosa pensi del cambio alla guida della Nazionale, quali giovamenti trarrà la rappresentativa azzurra dal passaggio delle consegne dalle mani di Giancarlo Primo a quelle di Sandro Gamba?

Sai, Primo non lo conoscevo proprio, a parte qualche buon giorno e buona sera non ho avuto modo di conoscerlo, mi sembrava un uomo distante, in generale, da tutto il resto della pallacanestro italiana; faceva vita a sé e pertanto anche le sue scelte e il suo lavoro erano molto personalizzati. Gamba è un personaggio diverso, più vicino. A parte che ho avuto modo di vedermelo contro si può dire da sempre, c'è il fatto che sui Giganti o da qualche altra parte, hai modo di sentire la sua opinione, di confrontare i suoi criteri con i tuoi. Insomma è sicuramente più vivo.

Una specie di Dan Peterson, per intendersi?

No, per carità! Dan è unico. Talmente unico che se ce ne fossero due l'altro dovrebbe vivere ad Hong Kong, per la pace e la serenità di tutti. Scherzo, ma Dan non ha eguali sotto molti aspetti, per alcuni dei quali bisogna proprio togliersi il cappello.

Non hai pensato di continuare la tua carriera di allenatore in Italia?

Potrei anche averci pensato ma nessuno si è fatto avanti per offrirmi un posto, e non è mia abitudine disturbare la gente proponendo di risolvere i suoi problemi, ammesso che ne abbia.

Ma tu, di Terry Driscoll allenatore, cosa pensi?

Mio padre mi ha insegnato una cosa, non stancandosi mai di ripetermela, mi diceva: 'Credi sempre nella gente, a gente è la cosa più bella che esiste al mondo, se la gente sarà con te potrai fare tutto nella vita'. Io credo che questo sia vero e anche nel mestiere di allenatore ho tenuto fede a questo principio, cerando di creare un amalgama tecnico e umano tra i miei giocatori. Non so se ci sono riuscito, ma certamente ho passato due anni nel tentativo di riuscirci. Credo molto nella fiducia e nell'onestà che dovrebbero regolare i rapporti all'interno di una squadra, e sono convinto che solo seguendo questa strada si possa avere un gruppo di uomini veramente sollecitabile e pronto a saltare l'ostacolo compatto, unito. Se incontri un uomo disonesto, per te che ragioni in questo modo tutto diventa più difficile, ma sarebbe peggio partire prevenuto contro tutti.

Credi che la festa sia veramente finita?

Terry Driscoll passa, la Virtus resta.

Driscoll in mezzo ai suoi primi stranieri

STILE UNDERDOG

di Terry Driscoll - V nere - 1990

 

Ho vissuto tre vite cestistiche, a Bologna. Della prima esperienza, sul finire degli anni Sessanta, non conservo particolari ricordi, se non quelli legati alla scoperta di un mondo nuovo. In campionato non resi al massimo, quindi preferisco rammentare soprattutto la grossa amicizia che mi legava a Massimo Costelli. Sei anni più tardi l’avvocato Porelli mi ripropose di tornare in Italia. Accettai con entusiasmo, un po’ perché mi ero stufato della vita fra i professionisti, un po’ perché credevo che Bologna avrebbe potuto regalarmi una soddisfazione inedita, quella della vittoria assoluta.

Di quel campionato favoloso i tifosi bianconeri ricorderanno tutti i particolari; anche le nuove generazioni ne avranno sentito parlare decine e decine di volte, perché si trattò del torneo di uno scudetto atteso 20 anni. La Virtus era considerata “underdog”: un termine che nello slang sportivo americano designa la squadra o il giocatore che godono di scarsa considerazione. Per di più l’incontro decisivo si giocava a Varese, in un palazzotto che aveva una fama sinistra, per gli avversari, perché si diceva che in esso Meneghin e compagni non avessero mai perso una gara importante.

La nostra vittoria smentì quella leggenda e cambiò il quadro del basket italiano, poiché la Virtus diventò una delle squadre pretendenti al titolo per un buon numero di anni consecutivi. Nei due campionati successivi, purtroppo, Varese ci superò sul filo di lana e anche quando toccò a me prendere il posto di Dan Peterson in panchina, pensavo che dovesse essere quella la squadra da battere. Come mio successore in campo “nominai” Kresimir Cosic; poi, dopo aver constatato che il mercato americano offriva molto poco nel settore delle guardie, decisi di affiancare a Caglieris un giocatore di stanza nel campionato olandese, Owen Wells. La mia nomina a capoallenatore fu accolta con molto scetticismo; insomma finii con il sentirmi anch'io un underdog.

Però vedevo che la squadra stava crescendo, che la classe (e l'amicizia) dei vari Villalta, Caglieris, Martini, Serafini poteva sopperire alla mia inesperienza. E così arrivammo in finale, per il quarto anno consecutivo. Ma, sorpresa, contro di noi non trovammo più Meneghin e soci, bensì la squadra di Milano, allenata da Dan Peterson. Dopo aver inflitto tredici punti di distacco al Billy, a Bologna, nel ritorno ci presentammo nell'immenso palazzone di San Siro. Ricordo che era una domenica di maggio e che a pochi metri da noi giocava anche la squadra di calcio del Bologna, impegnata nella lotta per non retrocedere.

I nostri "colleghi" pareggiarono (e si salvarono): noi, per non essere da meno, disputammo una prestazione magica. Dopo il primo tempo, concluso sotto di un punto, nello spogliatoio guardai i ragazzi negli occhi, dicendo: "Loro hanno già dato il massimo, adesso tocca a noi". Rientrammo in campo e con un travolgente avvio di ripresa ci assicurammo un vantaggio incolmabile. Fu la mia ultima partita con la Virtus.

Oggi sono il presidente della KSG, un'agenzia di vendite e rappresentanza per prodotti sportivi, con un mercato abbastanza ampio, in Europa e in Oriente. Spero sempre di tornare a Bologna, prima o poi. Allenare mi è piaciuto molto, ma non è che ne senta la mancanza; quindi verrei come turista. Se poi dovessi cambiare idea, beh, che dite: mi vorreste ancora fra voi?

 

IL BOSTONIANO

di Gianfranco Civolani

 

E se con il reverendissimo Coccodrillo del Nilo dovesse mai arrivare anche il magico bostoniano? Gigi Porelli lancia nell'etere il messaggio e in effetti approda a Bologna l'ex Citì azzurro Nello Paratore e di seguito ecco anche la primissima scelta di Detroit, quel Driscoll che sceglie Bologna e comunque l'Europa prima di scozzonarsi con quelle rocce dei pro a casa sua. Terry è un bostoniano dalla testa ai piedi. Ha i genitori ricchi e molto alfabeti, ha una faccina da bimbaccione tirato su a omogeneizzati every day, si esprime con grande proprietà e ovviamente promette di fare sfracelli nel nostro pianetino. E invece il bimbaccione (che ha solo ventuno anni) è un po' troppo timidone e i suoi primi approcci sono troppo labili e così la Virtus con Paratore & Driscoll fa un campionato tremendamente anonimo, settimo posto ex aequo, e insomma meglio cambiare perchè Terry dopo una stagione in altalena (ventuno punti di media, ma qualche vacanza agonistica di troppo) se ne torna a casa e di questo bel giovanottone di squisite maniere resta soprattutto l'indelebile ricordo della sua manina fatata che frega in tromba e allo spasimo la Fortitudo nell'ennesimo derby al calor bianco. Ciao Terry e chissà mai se ci rivedremo più.

E invece ci rivediamo quasi subito e ci rivedremo sempre. Passa qualche anno, Terry gioca benino e anche benone nell'NBA e qui a Bologna furoreggia John Fultz detto Mitraglia. Ma nell'anno di grazia settantacinque c'è little Dan Peterson in plancia e a little Dan non par vero di affidarsi a un suo connazionale tanto referenziato. Terry ha fatto un po' cilecca sei anni prima? E va bene, ma adesso Terry ha già ventisette anni. E poi dicono che si è anche fatto parecchio cattivello, provare per credere. Terry dall'America fa sapere che gli piacerebbe riprovare da noi e magari prendersi una bella rivincita. Torna e vince subito. Scudetto con Gigione Serafini e Charly Caglieris, scudetto e magari si inaugura un ciclo, stiamo a vedere. Ma no, non si inaugura nessun ciclo e tre anni dopo succede che tutti capiamo che Little Dan deve cambiare aria e che il suo successore non potrà essere che il divino Terry. In particolare mi ricordo una sera nel Nordovest della Francia, a Caen per un match di Coppa. Little Dan va a letto prestissimo e io e qualche altro collega restiamo a chiacchierare con Terry. Lui ci spiega come dovrebbe e dovrà giocare la Virtus e immediatamente intuiamo che lui Terry di lì a poco sarà il nuovo nume della V nera.

E infatti. Due stagioni, due scudetti, record del mondo più o meno omologato. Dicono di Terry che sia soltanto un giocatore che sa tenere unito il gruppo e che sa motivare. Io posso dire che se ogni tanto qualcuno pensa di alzare la voce con l'ex mollaccione, beh, adesso è già grassa se l'ex bambinone e mollaccione non lo prende per i blacchi e non lo appende in doccia. Morale: la Virtus di Terry è davvero invincibile e siamo tutti curiosi di verificare se davvero anche per Terry valga la regola del non c'è due senza tre. Impossibile verificarlo. Accade che dopo i due scudettoni Terry e Porelli d'improvviso si separano. E qui ci sono due versioni, quella ufficiale e quella più ufficiosa. Quella ufficiale dice che Terry si presenta in sede per chiedere un po' di milioni in più e che il Dux gli risponde che pochino sì e un pocone no o altrimenti sgambillare. E Terry conseguentemente sgambilla e saluta. Ma c'è una versione ufficiosa che racconta di madama Driscoll (signora che conta assai) che suggerisce al maritone di chiedere un bel po' perché se il Dux ci sta evviva o altrimenti meglio così perché Madama ha una gran voglia di rientrare nel Massachussets. Come è e come non è, Terry questa volta saluta per sempre. Noi non possiamo sballare i nostri bilanci, tuona Porelli, ma resta il fatto che nel dopo Driscoll la Virtus langue e dovrà poi aspettare ben quattro anni per cucirsi un altro scudetto, quello della Stella.

E adesso che sono trascorsi più di quindici anni dall'ultima apparizione di Terry con le insegne della V nera, vi dico che l'ex bimbaccione è sempre più spesso a Bologna. L'ex bimbaccione è nel commercio, è ricco, è rimasto un personaggio dello sport e del business dalle sue parti. Lo incrocio puntualmente quando vado in America per una qualche manifestazione sportiva e lo incrocio anche a Bologna perché un po' per i suoi commerci e molto per nostalgia il divin Terry cala da noi e non manca mai la sacrale e pastorale visita al Palazzarita. Sono tornato, ho visto Andalò con il suo grembiule nero e ho capito che a Bologna non cambia proprio mai niente. Poi sono tornato dopo un anno anche per far vedere a mio figlio dove il papà suo era stato tanto bene. Al palasport Andalò non c'è più ma l'ho ritrovato a Casalecchio e insomma mi chiedo se dalla vostra città io mi sia mai veramente allontanato. L'ultima volta l'ho visto a Modena. Si portava appresso un perticone di vent'anni che è suo figlio e che - suppongo - giocherà a basket o a volley o a football perché non è pensabile che un Driscoll junior non cerchi di seguire in qualche modo le orme. Terry oggi ha cinquant'anni, ma non ha preso nemmeno un chilo, sembra sempre quel bimbaccione che venne, buscò, rivenne e fece buscare gli altri. E nel frattempo noi di Bologna facciamo sempre i gattopardoni e cioè diciamo di voler cambiare tutto per non cambiare mai un cavolo. Carissimo Terry, hai proprio ragione, noi siamo fatti così.

 

Driscoll col suo vice Ettore Zuccheri (foto fornita da E. Zuccheri)

BIG NANO E L'AVVOCATO

di Gianfranco Civolani - tratto da "EuroVirtus"

 

Gli amori nascono e poi puntualmente si inceppano. Nel settantasei Big Nano e l'Avvocato si amano, ma tre anni dopo si separano. Big Nano va a stare da principe a Milano e in Virtus gli subentra proprio Driscoll. E meno male che Ettore Zuccheri - nominalmente assistente - lo prende per mano perché Terry - siamo portati a pensare - dovrà fare il suo apprendistato e dunque guai chiedergli l'ottavo scudetto, guai per pudore e per ragionamento.

Driscoll record del mondo, due su due, due scudetti consecutivi, due scudetti che portano la firma di un buon gregarione come Owen Wells ma che soprattutto si identificano nell'ascendentissimo Renato Villalta e in una coppia di stranieri che resterà nella storia virtussina, ovvero l'imperatore croato Creso Cosic e il Duca Nero, alias Jimmone McMillian, un gran signore che aveva in NBA conquistato l'anello e che viene a Bologna con le caviglie sinistratissime e che gioca divinamente senza palla e che difende da re e che segna i canestri che servono. E c'è una new entry per Pietrone Generali e per Martini, Porto e Govoni mentre il capitano lo fa Bertolotti e Driscoll Zuccheri tracciano il solco che i prodi difendono con lo spadone e con grandi valori agonistici e spirituali.

Siamo nell'ottanta, vuoi vedere che il Bostoniano ci regala il tris? Impossibile. Madama Driscoll ha voglia di ritornare a casa e così - quasi presagendo il tutto - coach two by two si presenta a Porellone. Gradirei un ritocchino - gli fa. E il trucissimo: tu mi stai nel cuore, ma nemmeno mezza lira d'aumento. Okay capo, ma se io allora allora torno a casa? The door, the door, fa Porelli indicando la porta.

Il Bostoniano tornò in effetti a casa e ogni tanto viene a Bologna e versa qualche lacrima ricordando la sua immarcescibile Virtus.

 

TERRY DRISCOLL, L'UOMO DEI RECORD DELLA VIRTUS BOLOGNA

Nessuno, nella storia del club, è stato capace di vincere un titolo da giocatore (1976) e uno, anzi, due, da allenatore (1979 e 1980)
di Alessandro Gallo - Il Resto del Carlino - 03/06/2021

   

Si chiama Edward Cuthbert, ma tutti a Bologna, l’hanno sempre chiamato Terry, perché il suo nome è Terry Driscoll. Terry, il “bostoniano”, l’uomo dei record perché nessuno, nella storia della Virtus, è stato capace di vincere un titolo da giocatore (1976) e uno, anzi, due, da allenatore (1979 e 1980). A Bologna in due momenti diversi, nel 1969/70, fresco di università e dal 1975 al 1980, da atleta maturo, sposato e padre di due figli. E quando può - la pandemia ha scombinato tutto - torna volentieri nella sua Bologna e non ha mai dimenticato quella padronanza della lingua italiana (senza trascurare il dialetto) che ne fanno non solo un campione sul campo, ma pure campione di integrazione.

Dici Driscoll e ripensi alla capacità di una stella di ripartire, dopo aver fallito (non per colpa sua, per altro), il primo approccio con le Due Torri.

Coach Peterson perché ho passato il pallone ad Aldo Tommasini? Doveva entrare nel clima partita. Avesse sbagliato il tiro al rimbalzo ci avrei pensato io.

Terry gioca nel campionato Ncaa nelle fila dei Boston C. Eagles. Essendo un classe 1947 finisce nel draft 1969. E' il quarto assoluto perché all’università Terry procede spedito: 23,3 punti di media ai quali aggiunge 17,8 rimbalzi. Se a questo punto siete convinti che ci sia un errore di valutazione e che Driscoll avrebbe meritato la prima scelta assoluta sappiate che il numero uno di quell’annata esce da Ucla e risponde al nome di Lew Alcindor. Ancora niente? Beh, Lew Alcindor è il nome di quel pivot che, qualche anno più tardi, convertendosi all’Islam, diventa Kareem Abdul Jabbar. Neal Walk e Lucius Allen gli altri due universitari che stanno davanti al nostro Terry che, comunque, precede un certo Jo Jo White, uno che avrebbe poi vinto due titoli con i Celtics e al quale Boston tributa l’onore di ritirare la maglia numero 10.

Terry viene scelto dai Detroit Pistons che gli propongono un triennale per complessivi 180mila dollari.

Driscoll, che è fresco di laurea in biologia, sceglie invece Bologna e un accordo da 75mila dollari. Ma non sono i dollari a spingerlo verso le Due Torri quanto, piuttosto, l’idea di continuare gli studi in Medicina all’Alma Mater Studiorum.

I propositi accademici vengono ben presto accantonati, ma basta la presenza di questo americano per accendere la fantasia dei tifosi bianconeri. Non è ancora un PalaDozza (che in quel momento è solo il Madison di Piazza Azzarita) da tutto esaurito, ma compare un primo striscione: “Dado, Driscoll e Cosmelli, sono tornati i tempi belli”.

E i tempi, nel 1969, effettivamente, sembrano volgere al meglio, fino a quando la caviglia di Terry fa crac. Driscoll fatica a recuperare e non rende da prima scelta. Torna nella Nba nel 1970 e, dopo una stagione con i Detroit Pistons, ne trascorre una seconda con i Baltimore Bullets, due con i Milwaukee Bucks e una con gli Spirits of Saint Louis. Nel 1974, in maglia Bucks, ha come compagni Oscar Robertson, proprio Lucius Allen e pure Kareem Abdul Jabbar. Quei Bucks arrivano fino alla finale per il titolo Nba, perdendo con i Boston Celtics. I Celtics si ricordano di lui un anno più tardi: il leggendario Red Auerbach lo vuole a Boston, perché Terry è di quelle parti, perché ha lo spirito indomito di Irlanda, perché sarebbe una bella iniezione di entusiasmo per il suo team.

Non se ne fa niente perché Terry vuole giocare con continuità. Succede così che Auerbach ne parli con Gianluigi Porelli e l’avvocato, alla fine, si convinca. E soprattutto convinca Driscoll a tornare a Bologna. Qualche giornalista dell’epoca lo bolla con un commento tutt’altro che lusinghiero. Terry viene paragonato a “una minestra riscaldata”. Niente di meglio per esaltare lo spirito competitivo e la grinta da combattente di Terry che vince lo scudetto al primo colpo. Non ha la stazza di Dino Meneghin, non ha le mani fatate di Bob Morse, ma con lui cresce tutta la Virtus. Un aneddoto per capire lo spirito di Terry? Aldo Tommasini è il decimo uomo della Virtus in un basket nel quale si gioca in sei, al massimo sette.

E in una delle prime partite, Peterson è costretto a far entrare Tommasini. Driscoll non ci pensa un attimo: gli passa un pallone che scotta e Aldo realizza due punti. Peterson a fine gara chiede spiegazioni a Terry: la scelta di servire il pallone al panchinaro non è parsa l’idea migliore al coach. E Terry? “Coach, dovevo metterlo subito nelle condizioni di entrare in partita. Se avesse sbagliato ci avrei pensato io a recuperare il rimbalzo”.

Capito lo spirito di Terry? Con lui, dopo lo scudetto - il primo per la Virtus in piazza Azzarita dopo un’attesa di vent’anni che ci riporta all’epopea della Sala Borsa - arrivano due finali tricolori (perse sempre con Varese) e la prima finale europea, la Coppa delle Coppe 1978.

Terry migliora tutti quelli che gli stanno accanto - da Bertolotti a Bonamico, da Serafini a Villalta - ma, nonostante abbia solo 31 anni, ha una schiena mal messa che gli impedisce di rendere come vorrebbe.

Dan Peterson, nel frattempo, il coach dello scudetto, prende la strada di Milano e dell’Olimpia e l’avvocato Porelli che fa? Si inventa Driscoll coach. Terry  sa di basket come pochi - del resto fino a pochi mesi prima è stato, per Peterson, come un allenatore in campo - e si avvale di un secondo tattico e di valore come Ettore Zuccheri. Arriva Kresimir Cosic e, per chiudere il cerchio, quell’Owen Wells che, si dice, sia un vicino di casa di Driscoll. Nasce una Virtus che vara una zona 3-2 con Cosic in punta e una 2-3 dove Wells lavora per quattro: dietro non si passa. E così, nel maggio 1979 arriva lo scudetto in finale proprio contro il maestro Peterson. L’anno dopo cresce il tasso tecnico perché al posto di Wells arriva Jim McMillian. Driscoll porta ai massimi livelli Pietro Generali, anche se perde per strada il talento Gianni Bertolotti. Terry è uno che guarda lontano, uno stratega che conosce bene la Nba. In Italia si gioca in cinque?

Driscoll pensa di trasformare Bertolotti in John “Hondo” Havlicek, che sarebbe poi il sesto uomo per antonomasia. L’uomo che entra a partita in corso e che, potendo fare tutto, la spacca. Havlicek, stella dei Boston (quasi una squadra del cuore per Terry), è famoso per quello. 

L’idea è quella: Bertolotti non la capisce fino in fondo e si perde. Ma alla fine dell’anno, comunque, arriva il secondo scudetto: 2/2 per un allenatore debuttante. Mica male, vero?

E Terry poi - siamo nel 1980 - che fa? Torna negli States. Si dice che lui e Porelli non riescano a trovare un’intesa per una differenza di 10mila dollari. La realtà è che Terry con la moglie Susan, vuol rientrare negli States per far crescere i figli Keith e Leslie.

Torna negli States e diventa “Director of Athletics” al College William & Mary di Williamsburg, in Virginia. Dov’è talmente bravo che gli affidano la gestione di milioni di dollari da investire nello studio e nei programmi atletico-sportivi.

Oggi Terry ha 73 anni, si tiene in contatto con i vecchi amici di Bologna. E quando la pandemia sarà solo un lontano ricordo, tornerà all’ombra delle Due Torri, per festeggiare. E brindare a tavola, mescolando l’italiano con il bolognese. E magari ricordando come, sua moglie Leslie, sia diventata una star in cucina, facendo assaggiare agli amici americani quelle lasagne che ha imparato a preparare proprio in Italia.

E se lo chiamate, una buona parola per i vecchi amici di Bologna, la trova sempre. Inimitabile Terry, campione con la C maiuscola.